Possono esistere macchine dotate di originalità? Nel Capitolo XVIII di Godel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Douglas R. Hofstadter descrive il programma che gioca a dama creato da Arthur Samuel, un programma talmente ben riuscito da essere in grado di battere il suo stesso creatore. Nel capitolo XX, Hofstadter riprende quel discorso per riflettere sull’intelligenza artificiale e lo fa in questi termini: “La conclusione ragionare è impossibile non è valida per le persone perché, come è chiaro a chiunque, noi siamo in grado di compiere molti passi successivi di ragionamento, nonostante tutti i livelli superiori. Ciò mostra che noi esseri umani operiamo senza aver bisogno di regole: siamo sistemi formalizzati. Viceversa essa è valida come argomento contro la possibilità di una qualsiasi realizzazione meccanica del ragionamento, perché ogni sistema di ragionamento meccanico dovrebbe dipendere in modo esplicito da regole e quindi non potrebbe decollare se non disponesse di meta regole che gli dicono quando applicare le regole, di meta-metaregole, e così via. Possiamo concludere che la capacità di ragionare non potrà mai essere meccanizzata. Si tratta di una capacità unicamente umana”.

E’ possibile pensare ad un’ambientazione artistica come ad una macchina, una sorta di gigantesco condensatore che si pone lo scopo di illustrare i meccanismi di tradizione di temi e figure del recente passato visivo ed anche di quello più remoto, attraverso formule espressive dell'emozione? Jacopo Mazzonelli pensa all’ambientazione come alla costruzione di una “fuga” in termini musicali: tutto comincia con il soggetto, nucleo generativo che deve essere perfetto, perché deve essere eseguibile per moto contrario, funzionare specularmente; nessuna opera d'arte si spiega interamente con il periodo che l'ha vista nascere, essa non è riconducibile al suo contesto, anzi, il fascino e la forza di un'opera antica si devono in parte al fatto che non sapremo mai con certezza come essa venisse percepita dai suoi contemporanei. La storia dell’opera è speculare al suo futuro, seguendo il pensiero di Marc Augè si potrebbe continuare con l’affermare che le opere d'arte antiche sono come delle rovine e inversamente le rovine, prima di ogni restauro o di ogni messa in scena, hanno qualcosa dell'opera d'arte. C'è al cuore della percezione estetica una mancanza che la definisce come tale, essa non è mai conoscenza integrale del passato ma è sottoposta all'attrazione di un tempo tanto evidente quanto inafferrabile. A questo proposito Mazzonelli afferma quanto segue: “Penso al concetto di mancanza, ossia di vuoto, di pausa, come elemento generatore intendo.

Penso alla pausa musicale, importante quanto la nota, perché i due elementi si influenzano: non c’è suono senza silenzio, non c’è silenzio senza suono. Questa teoria degli opposti pervade tutti gli apparati simbolici che mi interessano: l’alchimia, il gotico internazionale, il cristianesimo ed altri. La mancanza è mistero, e l’artista mentre plasma spesso toglie. Credo che il vuoto crei equilibrio, al contrario dell’apparenza semantica del termine. Pensiamo alle culture orientali, al minimalismo, ai quadri monocromi. Il vuoto crea equilibrio perché la massa ha bisogno di spazio per espandersi. Se pensiamo poi alle rovine, come dice giustamente Augè, in realtà ricostruiamo qualcosa di diverso. Se dotati di immaginazione e creatività, la rovina non diventa più un frammento di intonaco del muro, ma un elemento autosufficiente. La questione del ready-made lo ha già dimostrato. Per alcuni artisti il frammento è il passe-partout per entrare in contatto con un’idea collettiva, un ricordo. Penso ad artisti che lavorano su tematiche sociali, politiche, di razza o religione.

Nulla di più distante da me. Mi interessa la virtualità, l’autonomia meravigliosa del dettaglio. Il dettaglio è di per sé meraviglioso, altrimenti non è un dettaglio ma una parte di un tutto”. Se io parto dalla convinzione che l’immagine sia per Jacopo Mazzonelli il luogo in cui più direttamente si precipisca e si condensi l'impressione e la memoria degli eventi, allora essa è più semplicemente come una porta: l’artista dichiara di aver smesso di fare il musicista per fare l’artista visivo proprio per non dover attendere lo sviluppo nel tempo di un evento ma varcare in un momento la soglia. Così continua: “per questo il mondo è anzitutto oggetto di immaginazione. L'immaginazione trascendentale procede all'apertura del mondo in quanto possibilità generale dell'ente. I 12 studi di esecuzione trascendentale (Études d'exécution trascendante) di Franz Liszt sono composizioni che hanno rivoluzionato il mondo pianistico ottocentesco. Lasciando perdere il mero gusto per una forma di virtuosismo da palcoscenico fine a se stesso, credo che i presupposti di tali composizioni siano interessanti se posti in parallelo al discorso artistico. Mi spiego. V’è una compartecipazione meravigliosa di eventi che si incrociano nel momento della composizione. La costruzione di pianoforti si affina sempre di più, i volumi sonori e la precisione delle diverse parti della meccanica si raffinano.

Contemporaneamente il pianoforte assurge ad imperatore degli strumenti musicali, mentre l’esecutore deve tenere il tempo delle innovazioni. A questo punto entra in gioco il mistero del meraviglioso, ossia chiedere al pianista di superare, di trascendere i suoi limiti tecnici ed espressivi. In questo modo nascono gli studi. Ora, gli elementi che mi affascinano sono la questione del limite e del trascendente in relazione al discorso tecnico-costruttivo. Quando una serie di elementi si attraggono in maniera così forte nasce qualcosa di inspiegabile. Credo che l’arte sia più vicina alla scienza che alla letteratura. Che sia più vicina ai processi neurologici che alla poesia. La questione è creare dal nulla connessioni nervose nello spettatore. La scienza attuale è in grado di quantificare tali connessioni, ma di decifrarne una sola parte. Il mistero dell’arte e del corpo umano credo risieda in questo. Forse l’arte è possibile proprio per una nostra mancanza. Questa mancanza è l’immaginazione”. Mi trovo d’accordo con l’artista nel ritenere che dal momento che l’arte non è legata ad una funzione diretta resta una delle poche, se non l’unica condizione per la quale le gerarchie possano essere dettate a discrezione dell’autore. Le gerarchie di colore, forma e contenuto esprimono un sistema autosufficiente per il quale i ruoli spesso si invertono, si combattono e cosí conclude Mazzonelli: “La teoria del meraviglioso trova un porto sicuro in ragione di queste considerazioni”.

Il meraviglioso inteso come rappresentazione di fenomeni soprannaturali, divini, diabolici o magici? Direi, il meraviglioso che desta meraviglia! Il sentimento dettato dalla sorpresa di qualcosa di insolito, il sentimento di grande ammirazione per una cosa nuova e inaspettata che provoca stupore per la bellezza, per l’armonia, per la perfezione. Un prodigio. Inner è un lavoro visivo che esibisce un processo acustico; con Coro i colletti dei grembiuli disposti in cerchio, evocano un canto così nitido che allo spettatore pare di udirlo mentre in Der Tod und das Madchen la tensione delle corde che il ponticello sostiene insieme all’anima degli strumenti ad arco vibra come ci illudiamo non sia mai accaduto prima. Di Limbo rilevo la sospensione spazio temporale, ma è Petit che spetta il compito di ricordare a chi guarda che la luce, come la vista, mantiene l’equilibrio di questa opera e della mostra in generale. “Questa eterogeneità dall’invisibile al visibile può ossessionare il visibile come la possibilità stessa”, scrisse Jacques Derrida in Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine.

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