Oshevensk, un nome che appare remoto, lontano, mai ricordato e mai dimenticato. Nessuno, presumibilmente, ha sentito parlare di questo villaggio, eppure esiste. Indicato solo sulle carte più dettagliate, si trova lassù, nella fredda Russia del nord, 650 chilometri a est di San Pietroburgo. Eppure, una fredda mattina d’agosto, Francesco Comello lo ha raggiunto una prima volta, per poi tornarci ancora e ancora. Voleva rinsaldare i rapporti con la gente semplice e generosa che vi abita, capace di amare la natura del Nord nonostante la sua implacabile durezza.

Voleva tornare a respirare quell’aria, quelle atmosfere sospese nel tempo. Desiderava farsi parte di questo umile villaggio rurale, sorto nel XV secolo attorno a un monastero fondato da un monaco che poi ha attribuito il proprio nome al villaggio stesso. Arrivare a Oshevensk è stato per Comelli “compiere un salto indietro nel tempo, è stato come entrare dentro le suggestioni di un film di Tarkovskij, o in un romanzo di Tolstoj” - così ci racconta. Eppure è difficile non pensare che anche qui il comunismo dell’era dei Soviet non sia intervenuto in modo violento: il monastero, infatti, è stato in parte distrutto; la religione proibita; forse qualcuno sarà stato mandato ai lavori forzati; forse saranno stati eliminati i kulaki spiegando che questi proprietari terrieri “non erano uomini” (come scrive Vasilij Grossman). Ciò non di meno, lentamente, a Oshevensk tutto è tornato come nei tempi di sempre, quando non si parlava di rivoluzione, ma solo di fede, affetti famigliari, feste da celebrare assieme.

La luce è tornata a splendere nelle tenebre: quella luce di una vita semplice, tenace, dove la religiosità fa parte della vita, dei gesti quotidiani come il mangiare e il dormire. Dove non ci si chiede se credere o no in Dio, ma ci s’impegna a servirlo. In sintonia con le atmosfere di questo paese, le fotografie di Francesco Comello sono rispettose e quasi ovattate, a loro volta anacronistiche e volutamente non allineate con le tendenze contemporanee del reportage. Nel suo lavoro, infatti, non si trovano immagini dure, volutamente espressive, al limite della falsità.

Lui usa il classico bianco e nero con delicatezza. Non impone la sua presenza, ma lascia che l’obiettivo della sua macchina diventi un sensore capace di accogliere piccole storie quotidiane, atmosfere, emozioni. Nel suo sguardo non c’è nessun senso di superiorità e neppure di lontananza: non scopre Oshevensk, la ri-trova come una parte di sé, come un luogo dell’anima, dove riavvertire il senso della vita che scorre lentamente.

Mai nostalgico, il suo lavoro ci esorta a riscoprire la lezione del passato e della semplicità, per provare a dare un senso nuovo al nostro stesso futuro.

Testo di Gigliola Foschi

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