Alice rise: «È inutile che ci provi» disse, «non si può credere a una cosa impossibile». «Oserei dire che non ti sei allenata molto», ribatté la Regina. «Quando ero giovane, mi esercitavo sempre mezz'ora al giorno. A volte riuscivo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione.»

Visitare la mostra La grande magia è un po’ come vestire i panni dell’Alice di Carroll almeno per qualche ora. Il percorso espositivo si srotola come se fosse un piccolo paese delle meraviglie, un sentiero costellato di pensieri impossibili, fantastici, che hanno assunto valenza plastica e visiva grazie a persone speciali, quelle persone dalla sensibilità fanciullesca che sono gli artisti. Le opere scelte appartengono alla Collezione Unicredit, una delle collezioni più importanti e prestigiose d’Europa, veri e propri capolavori che attraversano la magia come trama nella storia dell’arte.

Quando gli artisti trasformano la materia in opera d’arte assumono sempre un po’ la valenza di alchimisti o maghi, riescono a impastare il pensiero alla forma, e se questa non è una magia, che altro può essere? Tutto ciò che seduce, che fascina lo sguardo ha un potere e l’opera d’arte diventa così una pozione contro l’apatia. Credere all’impossibile. È questo che vi si chiede all’inizio di ogni viaggio, che sia fisico o mentale, che sia visivo o uditivo.

La mostra si apre con dipinti importanti come il Capriccio Architettonico di Marco Ricci del 1700, Psiche abbandonata da Amore di Dosso Dossi del 1525, Aracne tesse la tela di Antonio Carneo del 1660, Il lamento dell’ora di Greuze del 1775. Ci si ritrova così in viaggio attraverso l’età moderna, tra leggende e miti, e ci si sente un vero viandante come nella foto esposta di Elina Brotherus, che fotografa se stessa affacciata su un vasto orizzonte paesaggistico, una ripescata dalla storia dell’arte, una reinterpretazione fotografica del Viaggiatore sopra il mare di nebbia di Caspar David Friedrich.

Una citazione di Massimo Bontempelli recita: “La magia non è che arte allo stato grossolano”. Ed ecco che ai nostri occhi appare il Bosco silente del 1925 di De Chirico e a fianco Pesci d’argento (Ninfe) del 1902 di Gustav Klimt, silhouette muliebri si stagliano su uno sfondo verdastro, fluttuano come in una pozione, sono irraggiungibili, effimere e seducenti, sono avvolte nel loro manto informe, come in una nube scura, cariche di mistero che sta per farsi pioggia.

La mostra prosegue facendo riferimento al cinema come atto magico. Una frase ricorrente, come il filo di Arianna ci lega… Il etait une fois di Jean Cocteau come un eco sordido ci accompagna. Tre proiezioni, tre estratti, La belle e la bête di Groit, Voyage dans la lune, di Georges Mélies del 1902 e il celebre Arrivée d’un train à la ciotat di Louis Lumiére del 1897, famoso per aver fatto sussultare i primi spettatori all’arrivo di quel treno che sembrava sfondare veramente lo schermo per entrare in sala. Lo stupore, la magia, l’incanto, il sogno, tutti elementi che caratterizzarono i primi esperimenti cinematografici.

Interessanti le tele di Bernard Schultze che indaga il processo magico come formazione dell’immagine dettata dall’inconscio, un concetto tanto caro al padre del movimento surrealista, André Breton. Surreale anche lo scatto di Clare Strand, Sospensione Aerea del 2008 che congela un corpo sospeso a mezza luna, in assenza di spazio e gravità e tempo. Con Col passare del tempo del 2005 opera di Vea Lewandosky, si ha veramente l’impressione di essere nel paese delle meraviglie, un orologio rotondo Siemens, dalle lancette marcate nere, viaggia all’impazzata all’incontrario, a ritroso nelle spiagge della memoria, in un non-luogo, in un'atemporalità suggestiva.

E sempre per confondere la percezione, Jeppe Hein propone un grande specchio rotante a due piani inclinati, 360° Illusione II, dove si viene inghiottiti in una centrifuga visiva a più piani: la sensazione di roteare in questo riflesso assieme alle opere esposte vicino crea una distorsione percettiva di grande effetto che incanta chiunque passi davanti. 

Arthur Duff invece si diverte a proiettare con un laser, parole in corsivo dal colore rosso flash che si muovono su una parete bianca, who see him, leaving, J, S, alone, in space, in total, stillness, see someone, far off, in the distance. Barbara Probst propone diversi punti di vista, fotografando quattro diverse prospettive di un unico evento. E ancora Peter Blake ci propone L’uomo farfalla, 2010, un uomo sognante capace di emanare tante farfalle color pastello libere in giro in uno spazio urbano, la donna di Shirin Neshat invece è un grande ritratto fotografico silenzioso, in bianco e nero, ricoperto da cima a fondo di scritte, di parole arabe: il titolo è Senza parole, del 1996. Il silenzio della Neshat, è un silenzio che urla e denuncia, e di urlo si parla anche nell’opera di Günther Schrei del 1991, Urlo Bianco, una grande tela costellata da una tempesta fitta e vorticosa di chiodi, contaminati da una colata di pittura total white densa, che fa male allo sguardo pungendolo.

Importanti nomi continuano a costellare la mostra, come Leger, Tinguely, Richter, Schwitters con i collage su carta del ’24, ’36, ’47, autentici non-sense degni dell’artista dada. E poi uno dei capolavori futuristi di Giacomo Balla, La guerra del 1916, manifesto dell’Italia interventista. La mostra presenta anche una ricca sezione fotografica, da Fischli e Weiss, Florence Henri, Bayer, Tim Gidal, ad Arthur Benda con La Danza dei dischi d’oro del 1931, Duchenne, Cameron, Weston, Mimmo Jodice, e i grafismi espressionisti di Rainer.

Christin Marclay presenta un curioso video, Telephones del 1995 un mixaggio di spezzoni di film hollywoodiani che hanno come filo conduttore la chiamata telefonica, dallo squillo all’Hello, alla chiusura. In mezzo il nulla, l’epifania di un gesto che noi non consideriamo neanche, vista l’automaticità con il quale lo compiamo, ecco che viene posto l’accento su un atto banale che rivisitato assume un’altra valenza estetica. Quale sarà veramente il contenuto della chiamata?

Il percorso espositivo continua con un’opera di Yves klein, Le monochrome, una scultura di spugna completamente blu, quel blu infinitesimale, impalpabile, invasivo che Klein rese concetto. Stefano Arienti invece coniuga il neon a un materiale povero come il polistirolo, arricchendolo non solo di luce ma anche di preziosità narrativa e manuale resa dalle abilissime incisioni di scene. E ancora compaiono, Ghirri, Zorio, Penone e Paolini con 3X3 Ognuno è l’altro o nessuno ognuno sembra guardare se stesso nell’atto di un fare, un calco in gesso che prevede un dialogo immaginato con Canova. Ci sono anche le impronte di piedi nel fango del fiume su un cartone di Richard Long, dell’87, che denunciano una presenza ora assente, un passaggio fugace di un tempo lontano.

E per credere nell’impossibile chi meglio di Christo, che con i bozzetti progetti delle Isole impacchettate di Biscayne Bay Greather Miami dell’83, rende possibile il sogno di scoprire il visibile celandolo. La grande magia consiste proprio in questo, nel disvelamento dell’ordinario, nell’epifania del fenomeno più banale, dobbiamo prestare attenzione e cura e particolare sguardo a tutto quello che ci circonda, perché siamo particelle in perpetua relazione con il mondo, e tutto può essere portatore di un messaggio caleidoscopico. Alla fine di questa mostra ci sentiamo un po’ come Topolino nell’Apprendista Stregone, curiosi e vogliosi di sperimentare, in cerca di una propria pozione, di una propria alchimia, di una magia.

Il prossimo appuntamento è per il 12 Dicembre.