Il terzo appuntamento che Photographica FineArt Gallery dedica al premio indetto dal FotoClub Lugano “Traguardo” è stato proposto a Reto Albertalli, giovane fotografo ticinese che vive e lavora tra Ginevra ed il Ticino.

Reto ha vissuto e lavorato per alcuni mesi in Afghanistan come volontario per l’Afghan Mini Mobile Circus for Children (AMMC) e facendo base a Kabul ha percorso i vari territori della guerra afgana scattando numerose immagini di grande forza artistica e documentaristica. Albertalli non è solo un bravo reporter, è anche un fine compositore di immagini ed un attento interprete dello stato d’animo: il suo, quello del luogo e quello delle persone che compongono le sue fotografie.

L’esposizione si compone di quattordici fotografie messe a confronto con alcune immagini di artisti da lui scelti.

Tra le sue immagini, sette raccontano del territorio e sette riflettono il paese negli occhi di sette ragazze da lui ritratte, volti di bambine in procinto di diventare donne in un paese dove non esiste forse condizione peggiore per vivere. Da questi volti si intravedono atteggiamenti e propensioni diverse, ma su tutte domina un palpabile velo di malinconia, a cui vorremmo dare soluzione, fornendo magari una risposta che non siamo in grado di formulare per sottrarle alla tragica condizione di ostaggi in un paese-prigione governato da maschi in guerra, a loro volta, inconsapevoli pedine di un gioco immenso e dai confini sfumati e per contribuire a liberare il potenziale che quelle menti e quegli sguardi nascondono.

Dalla generalizzata dissoluzione dei diritti delle donne che il conflitto afghano ha prodotto nell’arco di tre decenni, emergono quasi miracolosamente questi volti. Ragazze di cui non sappiamo nulla e che speriamo estranee a quanto scritto finora. Giovani donne che, mettendo a repentaglio la propria sicurezza, forse spinte da una sana curiosità o più semplicemente da un altrettanto condivisibile vezzo, hanno chiesto a Reto Albertalli di essere fotografate: “in quel momento insegnavo fotografia ai ragazzi presso l’Afghan Mini Mobile Circus for Children, in sostanza una scuola circense e di attività multimediali a Kabul. Una bella alternativa giocosamente seria al quotidiano. La maggior parte del tempo la passavo con i maschi perché con le ragazze era vietato anche il minimo contatto visivo. Guai a parlarci… Ma poi sei lì, giorno dopo giorno, diventi parte di qualcosa, anche se resti sempre uno straniero sconnesso dal loro mondo, dalla loro società. Ma ti considerano simpatico e non rappresentando una minaccia cominci a stabilire qualche breve frammento di interazione, qualche momento privilegiato. Fino al giorno in cui la più spavalda, o la più coraggiosa, mi ha chiesto perché io stessi sempre con i maschi e se fosse possibile frequentare il corso di fotografia. E allora hanno cominciato ad arrivare e il tempo passato insieme è diventato sempre più prezioso.

All’inizio mi sono illuso. Pensavo che da lì a poco sarei arrivato a conoscere le loro realtà private e così vivevo un’altalenante condizione di speranza e delusione. Poi ho capito che il soggetto più potente era proprio il rapporto privilegiato che avevo stabilito con loro. E così abbiamo iniziato a parlare del loro paese, della guerra, della condizione della donna finché mi sono azzardato a creare un semplicissimo set, una sorta di studio a luce naturale – una finestra, un oggetto chiaro in grado di riflettere la luce, un fondo neutro – in cui ho chiesto loro di posare. Hanno accettato, ma ho avuto sempre la sensazione di varcare una soglia e la tensione era palpabile. Certo, l’Hasselblad non aiuta. È una macchina ingombrante e incute timore ma ho optato per questo strumento perché ero frustrato all’idea di realizzare il classico reportage, che spesso racconta più del coraggio del fotografo e del suo passaggio in un determinato luogo ma poco o nulla delle persone che ha incontrato. Mi serviva un approccio diverso che mi consentisse di vedere l’altro perché solo in questo modo posso conoscerlo, nel tentativo di sottrarlo all’anonimità, di dargli voce. A questa serie di ritratti ho deciso di alternare alcune fotografie in bianco e nero in cui a prevalere sono le figure maschili e le donne negate. Si crea così un contrasto fra il mondo esterno – regolato, normato –, e la prossimità e il bisogno di libertà che quei ritratti esprimono”.

(Tratto da un testo di Fabio Martini)

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Orari di apertura
Martedì - Venerdì 9.00 - 12.30 e 14.00 - 18.00
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