Parigi. Maurizio Galimberti si ferma in una delle boites rannicchiate lungo la Senna. Gli occhi scivolano su un libro rarissimo, del 1948. Le ceramiche di Picasso. Picasso è la sua ossessione, come i baffi della Gioconda di Duchamp e le foto di Man Ray. E’ come se quel libro lo avesse aspettato dal 1948 fino a quel momento, a quella passeggiata lungo la Senna. Galimberti ne strappa le pagine. Le incolla su fogli nivei. Le immortala. Uno scatto. Dai colori cangianti trapela un incanto diverso. Un altro scatto. Indugia su un dettaglio. Diventa titanico. L’icona è sfiorata. Posseduta. Copiata. Superata. Non si tratta di una mimesis pedissequa. Sono lacerti di memoria che affiorano con inedite accezioni. Galimberti è il fotografo del maquillage, della fantasia, della citazione. Dice di sentirsi Glenn Gould. Abbarbicato alla Polaroid come fosse un pianoforte. Le camere oscure gli ricordano un passato negletto. Per questo le fugge. Meglio la Polaroid, il suo odore, la sua sincerità, la sua manifesta impossibilità di raccontare il contingente, il suo potere di trasformarlo in una struggente illusione. La fotografia diventa un feticcio affettivo, una lettera trafugata a un racconto di Chandler, un personaggio di Pirandello, uno spectrum che ritorna. Immagine bugiarda eppure verissima, densa di pulsioni sottese.

L’artista non cerca il nuovo. Gli interessa ciò che è già stato. L’eterno. Sottratto all'appetito famelico di Cronos e cristallizzato in un momento unico. Irripetibile. Galimberti cattura un lembo di vita, uno sguardo fugace, una ceramica di Picasso. Li contamina con il cinema e con il Futurismo, con Duchamp e con il Cubismo. Ne carpisce suggestioni lontane. Li congela con la macchina, li frantuma, li trasforma in mosaici. La materia non è esibita come un guscio vuoto, come un mero relitto, bensì trasfigurata, traslata in un alveo metafisico. L’istante viene trattenuto, cristallizzato in una dimensione intima, calda, intrisa di impressioni. L’aura di cui parlava Benjamin non si dissipa. Piuttosto, subisce una metamorfosi. Si trasforma in altro. Un sogno. Una visione. Una chimera.

Le ceramiche di Picasso diventano gli arabeschi di Galimberti. Le geometrie si confondono, la prospettiva cambia repentina, il ritmo si frammenta, i colori s’irrorano di sfumature diverse, che abbacinano lo sguardo e lasciano sgomenti. Tutto scaturisce dalla presunzione (mai dalla tracotanza) di impossessarsi del mito, del suo riflesso, di una sua riproduzione sulle pagine di un libro. L’immobile e sempre presente viene ponderato, accompagnato, infuso di nuovi significati dall’attuale, dall’effimero, dal bisogno di inaudito, dalla sensazione dell'attimo. Preso tra la folgorazione maniacale del passato e l’urgenza di plasmarlo a proprio piacimento, ogni scatto di Galimberti è lacerazione, oscillazione, simultanea esaltazione, gioia e lutto. L’idea di Herder e del Romanticismo tedesco di un genio creatore asservito al modus antico è franta. La Storia si spoglia del suo abito austero, solenne, impersonale. L’eterno ritorno del nuovo.

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