Che cosa hanno in comune le opere di Vincenzo Castella, Luigi Ghirri e Jacob Hashimoto?

Non si tratta del linguaggio attraverso cui sono articolate, della loro tecnica, del contenuto, dello stile. Niente di tutto questo. A tenerle insieme c'è il fatto che danno vita a delle immagini rinchiuse dentro un perimetro, innescando una dialettica fra interno ed esterno. Ognuna lo fa per effetto di specifiche modalità di costruzione.

Le opere di Castella sono riempite di prati, alberi, arbusti e altri elementi naturali tagliati di netto dai bordi dell'inquadratura. La frammentarietà della fotografia, che può soltanto isolare un particolare, viene enfatizzata suggerendo l'espandersi dei soggetti oltre i limiti della stampa. Il risultato è il contrario di quello che si potrebbe supporre: questi lavori non arginano la natura entro uno spazio concluso, bensì estendono all'infinito la sua presenza.

Le fotografie di Ghirri ottengono il medesimo risultato attraverso un movimento opposto. Anziché articolarsi sulla base di una struttura centrifuga, sembrano la conseguenza di un processo di collassamento del mondo all'interno del campo di ripresa, con i soggetti principali raffigurati spesso per intero e posizionati al centro. Scrive lo stesso Ghirri nella prefazione al suo libro Kodachrome: "La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata è per me importante quanto il rappresentato... l'immagine continua nel visibile della cancellazione, e ci invita a vedere il resto del reale non rappresentato". Anche i dipinti di Hashimoto, pure non scaturendo da un'operazione di prelievo della realtà attraverso un obiettivo, forzano i quattro lati che li delimitano. A promuovere questa dilatazione sono i pattern geometrici che strutturano alcune composizioni, evidentemente fondati sulla propria ricorsività (anche in linguistica, questo termine individua un processo che può teoricamente ripetersi all'infinito), così come la fluidità di forme improvvisamente interrotte dal taglio geometrico della tela. Off-Screen punta l'interesse sulla soglia che in queste opere mette in contatto, senza separarli, il dentro e il fuori. Tutto ciò che si vede nei lavori di Castella, Ghirri e Hashimoto, si riferisce a entrambi questi contesti, presi insieme e senza soluzione di continuità, facendo da supporto a una costante indagine sulle nozioni di natura, artificio e visione.
Testo di Francesca Zanot

Vincenzo Castella nasce a Napoli nel 1952; vive e lavora a Milano.

L’atteggiamento di Vincenzo Castella nei confronti del contenuto del lavoro è profondamente diverso rispetto a quello degli altri fotografi di paesaggio. La sua è un’esplorazione che parte dai luoghi che meglio conosce: Napoli, Milano, per andare poi in altri siti d’Europa e del Mediterraneo. Fotografie possibili, prese da punti di vista che chiunque può avere. Castella non vanta, infatti, il privilegio dello sguardo. Già dai suoi primi lavori-a metà degli anni Settanta- è l’azzeramento dell’io narrante, momento precipuo della sua ricerca, nella quale non c’è soggettiva. Il colore è una parte fondante della ricerca, anche se al momento della ripresa le sue scelte non sono guidate da collegamenti cromatici: è, piuttosto, attento ai dettagli.

Nei lavori sulle città dei quali si occupa dalla fine degli anni Novanta, l’unità di misura è il building. La città è un linguaggio e la fotografia è un’invenzione che scaturisce da essa.

In recenti lavori come Cronache da Milano, realizzato con il gruppo Multiplicity e proposto ad Art Unlimited del 2009 con Studio La Città, sono fotografati palazzi e punti della città dove sono avvenuti episodi di cronaca nera.  

Jacob Hashimoto nasce a Greeley, U.S.A., nel 1973. Vive e lavora a New York.

Jacob Hashimoto è da un certo punto di vista un'artista decisamente americano, ma recupera in profondità ed in maniera assolutamente creativa una certa eredità giapponese. L'ultimo sviluppo del suo lavoro in cui si ergono colline e onde, è delicato come le sue prime opere costituite da cascate di aquiloni. E, come in precedenza dominava un senso di levità, ora c'è un senso di sollevamento. La delicatezza delle sue forme, che scendono e avvolgono o che si espandono e salgono, crea spazio tanto per lo spirito quanto per il corpo.

Luigi Ghirri nasce a Scandiano, nel 1943 e muore a Roncocesi il 14 febbraio 1992.

Inizia a fotografare nel 1970 confrontandosi con artisti concettuali e ricercando segni nei paesaggi naturali e segni artificiali nell'opera umana e nel paesaggio stesso (manifesti, insegne ma anche cartine geografiche). Dal 1980, sollecitato da Vittorio Savi, si confronta con la fotografia di architettura nel territorio. In particolare fotograferà per lo stesso Savi, per Aldo Rossi, Paolo Zermani. I suoi paesaggi sono sospesi, non realistici per certi versi metafisici, spesso privi di figure umane ma mai privi dell'intervento dell'uomo sul paesaggio. Le sue foto sono generalmente a colori. L'uso di colori delicati e non saturi è fondamentale nella sua poetica e nasce dalla stretta collaborazione con il suo stampatore Arrigo Ghi.

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