Il 19 Maggio 2013 si inaugura a Brescia, presso la Galleria dell’Incisione, la mostra “Scultura italiana 1915-1945. Dal fascino del Liberty al recupero della classicità”, a cura di Giovanna Caterina de Feo e Chiara Fasser.

Saranno esposti i lavori di una ventina di artisti attivi nell’Italia centro-settentrionale fra il 1915 e il 1945, periodo di grande vitalità dell’arte italiana.

Con il progressivo scemare delle avanguardie storiche e l’insorgere di un contesto sociale e culturale profondamente cambiato dagli sconvolgimenti della prima guerra mondiale e dall’affermarsi del movimento fascista, gli artisti propongono nuove forme espressive che perverranno ad esiti formali non uniformi.

Il cosiddetto “ritorno all’ordine”, divulgato dalla rivista “Valori Plastici” di Mario Broglio, significa per le arti visive un nuovo rapporto fra tradizione e modernità, nonché il recupero della sapienza tecnica e del mestiere. Gli scultori guardano ai grandi maestri del passato e alla loro interpretazione dell’anatomia umana; la scultura monumentale, che già conobbe grande slancio con la fine della prima guerra mondiale e la relativa celebrazione della vittoria e degli eroi di guerra, ebbe molta fortuna anche sotto il regime fascista, che spesso la utilizzò per celebrare i nuovi protagonisti e ideali di partito.

Il fascismo, come gli altri regimi dittatoriali europei, non mancherà di sfruttare l’arte a fini propagandistici, in molti casi col consenso, tacito o espresso, degli artisti stessi. Tuttavia interpretare la ricerca artistica di questo periodo secondo una prospettiva ideologica significa sottovalutarne la complessità storica, la validità e in molti casi l’eccellenza.

Tra i maggiori esponenti dell’arte del periodo emerge il milanese Adolfo Wildt (Milano 1868 – Milano 1931). Artista quasi alchimista (è nota la paziente prassi cui sottoponeva la materia, rifinita con formule segrete note a lui solo), Wildt è portatore di una cultura fortemente influenzata dalla Secessione e caratterizzata da complessi simbolismi; la sua “Vittoria” (1919) in marmo e bronzo dà inizio, idealmente, al percorso della mostra.

Altra personalità di spicco è Libero Andreotti (Pescia 1875 – Firenze 1933), che aveva esordito qualche anno prima, subendo anch’egli il fascino del Liberty; La scultura che si presenta, Maria e Maddalena dolenti ai lati della croce, 1930, è uno dei tre bozzetti realizzati per la cappella Borletti a Milano eseguiti qualche tempo dopo la conversione religiosa del 1921, e prelude a L’Annunciazione del 1931 oggi nella Galleria d’Arte Moderna di Firenze.

Lontano dall’esasperato linearismo di Wildt è Arturo Martini (Treviso 1889 – Milano 1947); di questo grande autore si espongono oggi due terrecotte da stampo del 1927: “San Sebastiano” e “Le Collegiali”, una deliziosa invenzione narrativa e poetica per raccontare il sentimento di complicità e amicizia di un gruppo di adolescenti.

Chi, invece, guarda alle opere del Rinascimento e del classicismo italiano è Arturo Dazzi (Carrara 1881 – Pisa 1966), grande manipolatore del marmo, attivo soprattutto tra Roma e la Toscana. La sua attenzione verso il mondo classico si ritrova nell’opera in mostra, il bellissimo “Busto di bambino” (1920 ca.).

Coetaneo di Dazzi è il ferrarese Arrigo Minerbi (Ferrara 1881 – Padova 1960), attivo nell’Italia settentrionale: anch’egli non sfugge al destino che muove molti di questi autori verso forme classicheggianti. In mostra un bellissimo “Bambino in fasce”, quasi un Bambino Gesù, modulato su Masaccio, nel quale per la grande attenzione imposta alla finitura della materia è evidente l’avvenuto incontro con Wildt.

Anche Timo Bortolotti (Darfo, Brescia 1884 – 1954), scultore oggi raramente presente nelle mostre d’arte, dopo i primi anni trascorsi a Brescia, cresce nell’ambiente milanese di Wildt, Funi e Marussig. Di lui si presenta il bronzo “La risaiola” (1936), in cui lo scultore sembra ritrovare l’antica matrice del verismo lombardo.

La vita rurale della campagna romana è al centro, invece, dell’ispirazione di Duilio Cambellotti (Roma 1876 – 1960), attivo a Roma e nell’Italia centro-meridionale, poliedrico artista, scultore, pittore, decoratore, ceramista, architetto e scenografo, anch’egli proviene dall’area bistolfiana e dal gusto liberty; l’attività di scultore di monumenti commemorativi è bene rappresentata dal “Guerriero del Tripode” (1919-1922), il modello definitivo per il Monumento ai Caduti di Terracina realizzato in cera rossa e legno.

Attilio Selva (Trieste 1888 – Roma 1970), è presente con la scultura Signora Mariuccia Carena (1920 ca), in bronzo e marmo cipollino. La scultura era ritenuta dalla critica del suo tempo uno degli esempi più belli della ritrattistica di Selva, dove emerge il grande talento nel coniugare la ricerca dell’interiorità del soggetto con la resa fisiognomica e la cura nell’esecuzione.

Nel vasto gruppo di scultori attivi a Roma tra le due guerre, quasi tutti provenienti da regioni diverse, oltre ai già nominati Selva (da Trieste) e Dazzi (da Carrara) e all’errabondo Arturo Martini, si ricorda il veneziano Attilio Torresini (Venezia 1884 – Roma 1961), certamente tra i più vicini alla svolta “purista” dei pittori della prima fase della scuola romana. In mostra si espone la “Fanciulla dormiente” (1929 ca.) e la “Bagnante” (1939 ca.), una spigliata figurina di donna la cui patina verde del bronzo è trattata come se fosse un oggetto di scavo.

L’ambiente transalpino è testimoniato in mostra da due maestri molto diversi tra loro: da Sevèr Werther (Milano 1898 – 1940) con il bronzo Balilla (1930) esposto alla Biennale di Venezia nello stesso anno, e dal cosmopolita Ernesto De Fiori (Roma 1884 – San Paolo del Brasile 1945) con un sentito “Autoritratto”, in cui, invece, è evidente tanto il suo rifiuto per la deformazione espressionistica del soggetto, tanto l’interesse per l’individuazione dell’anima del personaggio, in questo caso sé stesso.

Una menzione particolare meritano i “Due leoncini” di Felice Tosalli (Torino 1883 - 1958), scultore animalista formatosi a Parigi e poi a Torino.

A questi importanti autori fanno da corollario altri, non meno noti ma un poco più giovani: Marino Marini (Pistoia 1901 – Viareggio 1980) con un disegno che mostra una tematica cara all’artista: Cavallo e cavaliere (1941), e il suo quasi coetaneo Francesco Messina (Linguaglossa, Catania, 1900 - Milano 1995) che, in questo primo periodo, con il “Ritratto di bambino” si inserisce pienamente nel clima del “ritorno all’ordine”.

Chiude idealmente la mostra una “Vittoria” di Angelo Biancini (Castel Bolognese 1911 – 1988), nella quale è ancora evidente il debito contratto con il proprio maestro Libero Andreotti (in particolare con la “Donna che fugge”, 1920).

Non è del tutto casuale, forse, che siano due opere di soggetto simile, una rappresentazione della “Vittoria”, ad aprire e chiudere la mostra. Se è vero che il Vittorioso di una parte non è che lo Sconfitto dell’altra, queste due opere possono essere prese a pieno titolo come rappresentative di un’epoca, e la “Vittoria” di Wildt (classe 1868) e quella di Biancini (classe 1911) mostrano entrambe la traccia del cammino percorso nell’arte e nella nostra storia.

Galleria dell’Incisione
Via Bezzecca, 4
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Orari di apertura
Dalle 17.00 alle 20.00
Chiuso Lunedì