La Galleria Il Ponte completa la stagione espositiva ospitando un'esposizione che raccoglie sei artisti, conosciuti al pubblico e operanti anche in ambito cittadino, dei quali viene presentata una selezione di opere recenti. Un ritrovarsi amichevole e piacevole é la trama per tessere le fila di questa mostra. Gli artisti rappresentano due generazioni distinte: i Maestri del post-informale, citando Paolo Masi e Riccardo Guarneri - unico artista già presentato in Galleria alla fine degli anni ’80 - e coloro che hanno intrapreso un discorso artistico alla metà degli anni ’80, esprimendo il superamento del ritorno alla pittura. Di Daniela De Lorenzo, Antonio Catelani, Carlo Guaita e Paolo Parisi vengono esposte opere che ci introducono alla lettura dell’intensità del loro fare artistico svolto negli anni e che ci fanno prendere atto di quanto le loro proposte iniziali fossero difficili da tradurre linguisticamente.

Del resto, la contemporaneità delle opere qui esposte permette di soppesare l’esperienza e la storicità del fare arte sulla fantasia creatrice e di distinguere le differenze di uso dei linguaggi espressivi per il fatto di appartenere a generazioni e climi culturali diversi. Basi e fondamenta teoriche delle varie proposte di immagini rimangono sempre pittura, scultura e pensiero architettonico, ma la specificità poi di ognuna é talvolta sottoposta al vaglio della metaforizzazione e della concettualizzazione che ne determinano l’appartenenza all’oggi.

Una visita guidata
Questa esposizione ha preso forma a partire da molteplici affezioni e da un desiderio condiviso di ritrovarsi piacevole e amichevole. Gli artisti hanno liberamente selezionato le opere da esporre; compito dello scrivente credo sia di guidare – ma del tutto liberamente, non sono specialista di nessuno degli artisti presenti - un pubblico virtuale ed eventuale in una visita guidata.

Soccorre da subito un’avvertenza: le opere che stiamo leggendo sono tutte molto recenti o addirittura inedite; la storia artistica dei loro autori ha lunghezze non confrontabili. L’incrociarsi di campate temporali diverse è ciò che genera infinite declinazioni linguistiche distinte e in conclusione è ciò che costruisce la personalità e lo stile di ciascun artista.

Riccardo Guarneri propone queste due opere, olio su tela, 4 quadrangoli, del 2008 e Due parti luce al centro del 2011. Mi piacerebbe che lo spettatore avesse negli occhi le opere che Guarneri licenziava negli anni 1964/66 – per esempio le opere esposte in occasione della mostra Continuità: Arte in Toscana 1945/1967, tenutasi esattamente dieci anni fa, per la cura di Alberto Boatto. In particolare le due opere riprodotte in catalogo alle pagine 130 e 131 (Due verticali 1964 e Quadrati simultanei, 1966). La calma determinazione nella costruzione dell’immagine colpisce ed è chiaro che l’artista, dopo una breve stazione informale, ne fuoriesce per una via personalissima, dove l’esperienza percettiva ma tanto più la cesura tra sentire soggettivo e formulazione espressiva è decisa una volta per tutte. Sovrano magistero di equilibrio formale. Guarneri è rimasto a tutt’oggi fedele a questa idea d’arte della visione, a volte accentuando a volte smarginando la visibilità della cosa/opera, ma senza mai perdere la sovrana padronanza dell’equilibrio. E una verifica e una conferma di questa tenuta di tensione poetica la Galleria Il Ponte l’aveva già verificata alla fine degli anni ’80 proponendo proprio una selezione di opere di Guarneri degli anni ’60.

Paolo Parisi si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Firenze nel 1985; dello stesso anno è l’azione Brown Boveri a Milano, un’esposizione sui generis, che segna la presa di distanza della giovane generazione artistica italiana rispetto alla centralità del linguaggio pittorico. Parisi di contro abita consapevolmente quel linguaggio e il suo percorso sarà indirizzato al suo potenziamento. In mostra propone due recentissime opere, due Unité d’habitation di evidente provenienza architettonica e di sostanza utopica – il riferimento va naturalmente all’opera di Le Courbusier costruita a Marsiglia (1946/52) con l’applicazione del Modulor, il sistema proporzionale basato sulle misure del corpo umano. Si tratta di esercizi di stratificazione, qui di colore, altrove di cartone incollato; in un caso la superficie viene a mostrarsi, nell’altro si generano luoghi/contenitori, dai quali il pubblico può stazionare e leggere l’esterno. In questo caso l’artista guida la direzione dello sguardo e quindi lo carica di senso. Nell’occasione espositiva al Pecci, per esempio, lo sguardo poteva lavorare sull’esterno, e incontrava un mondo rosso; oppure uno interno al museo stesso, in bianco e nero. La superficie pittorica – il colore – si articolava architettonicamente in interno/esterno. La pittura non è una semplice superficie bidimensionale, ma sostanzialmente uno sguardo, una visione del mondo. E una conferma nel lavoro di Parisi si rintraccia nel luogo di partenza e di determinazione dello spazio, mutuato dalle carte geografiche, filologicamente la nascita dello spazio moderno.

Mettere in relazione una forma e la sua possibile definizione linguistica: questo esercizio, ripetuto con materiali diversi, apre il percorso d’arte di Antonio Catelani, e siamo alla metà degli anni ’80, una data che tornerà significativamente per tutta la generazione più giovane presente in mostra.
Ma la forma proposta dall’artista non segna ritorni o nostalgie minimaliste; anzi sono forme complesse, in cui compare anche l’attività disegnatoria e il chiaro riferimento all’architettura. Fu questo lavoro qualificato come scultoreo, ma oggi avanzerei dubbi al proposito. Catelani non muove da una disciplina, ma dalla necessità di costruzione di una visione propria, a partire dalla convinzione che l’arte è un sistema di forme che vivono al margine del reale, indipendenti, ma capaci di evocarlo. Il verde del paesaggio e la luce pulita delle vetrate, evocate da pannelli colorati tenuti insieme da molle metalliche, che sottolineano la precarietà dell’impianto, la sua rimessa in questione: ecco l’atteggiamento dell’artista, che opera dentro una ipotesi di percorso, ma interno alle singole opere, che non si abbandona ad uno stile che segni la sua riconoscibilità, nella sicura ripetizione. Coerentemente l’opera nuova che propone oggi si presenta come un’immagine che non ha uno stile compositivo, ma risulta da una situazione, cara all’arte del XX secolo, che ha messo l’arte e la bellezza in relazione alla malattia. L’immagine è il risultato di un’operazione; esattamente come per le carte serigrafate, dove il gesto del ripetere ne è l’anima e ne segna la sostanza.

Riapro un catalogo fiorentino, datato febbraio 1987, Galleria Carini: è la prima uscita comune di tre artisti, che poi verranno segnalati da Tommaso Trini e infine invitati nella sezione Aperto ’88 alla XLIII Biennale d’Arte di Venezia: Catelani, Guaita e De Lorenzo.

Daniela De Lorenzo aveva studiato scultura all’Istituto d’Arte fiorentino, ma è chiaro da subito che la sua è una scultura per metafora, pone segni nello spazio; e lo spazio diventerà sempre più il tema della sua ricerca. Uno spazio morbido, che si definisce sempre più a partire dal corpo, dall’indagine anatomica, nell’utilizzo dapprima di materia speciale, il feltro in funzione anti-Beuys; poi la fotografia e infine le videoregistrazioni di danze e movimenti di una ballerina.

Le opere che propone ora alla nostra attenzione sono la testimonianza di una pratica della lingua scultorea profondamente meditata fin dalle prime pronunce d’arte. Il ricamo come disegno speciale; il corpo nella sua gentile concretezza; e il feltro che recupera una tradizione di scultura a bassorilievo – chi più di Donatello fu maestro in Firenze. Il tutto tondo delle sculture di De Lorenzo e i bassorilievi, prodotti sempre lavorando il feltro, mantengono la stessa natura di morbidezza nello spazio e quindi dello spazio – la scultura qualifica lo spazio che la accoglie. Ne ho avuto recente verifica con un’opera che De Lorenzo ha esposto a Firenze ,alla mostra Suspence presso EX3: i suoi feltri costruiscono un’immagine che sta per se stessa, si autosostiene, tanto se poggiata su un piano quanto se appesa. Si sottrae alla nozione di monumentale pur mantenendo un legame con l’idea classica di scultura.

La geologia è ordine e disordine, stratigrafia: Carlo Guaita ha una radice scientifica a guida della ricerca artistica. E’ una fonte che proietta verso l’atto del ripetere differente: non importa la natura della materia, conta l’agire nella sua purezza, nel suo valore di integralità. Ciò che all’inizio era ricerca grammaticale – Leve, Punto d’appoggio, Applicazione sono titoli di opere del 1987 – diventa manipolazione rituale secondo regole fissate in precedenza: intingere, sospendere, piegare, lasciare che l’opera si faccia da sé. Lo spirito scultoreo di Guaita consiste essenzialmente nel suo continuo lavoro a sottrarre – esattamente come per la scultura di Michelangelo. E poiché per questa via è inevitabile incontrare la natura dello spazio, ecco che Guaita per un lato si avvicina all’architettura; dall’altro al regno delle scienze naturali dell’Illuminismo – ed ecco la sua produzione di libri, gli Opuscula geographica. Nello spazio sempre identico a se stesso ogni cosa incessantemente muta? Sembra una formula, in verità è la natura della sua ricerca che abbandona la nozione di forma per l’esperienza dell’incessante formare. Pensiero e costruzione di immagine: tanto è classico l’approccio all’universo filosofico e scientifico, quanto è drammatico e teso al limite l’atto della costituzione d’immagine. Guaita sente che l’universo formale cui sta dando forma è sostanzialmente uno, ma sa che il linguaggio in uso deve essere il più libero possibile. Ecco allora che l’ingombro spaziale di due colonne – ma rettangolari, quindi architettura moderna – rinvia al mondo ed entra nella logica del pensiero filosofico sintetico: Monde, Description générale. Ma in mostra propone anche un’opera che si replica da sé grazie alla matrice e alla stampa.

Il percorso di Paolo Masi, in questa esposizione, va messo in relazione all’opera di Guarneri, non per vicinanze ma per generazione e storia individuale. Allora emerge in Masi un’intenzione più sanguigna e intrecciata con la vicenda dell’opera d’arte nel contemporaneo. Le opere del biennio 1963/65 parrebbero rinviare, da un lato, ad una dinamicità d’ascendenza futurista; dall’altro alla meditazione sullo spazio di un artista come Mario Nigro. In verità le opere si generano da una dialettica tra ordine e caos ed hanno una sensibilità “grafica”, sulla scala dei grigi. Ma soprattutto si allontanano drasticamente dal tema “colore”, centrale nella prima fase informale dell’artista, per recuperare una metrica dello spazio figurale che propone una analogia logico-estetica con lo spazio della società umana, eticamente accolta. Questa analogia e avvicinamento dei campi conduce Masi nel cuore degli anni ’70 ad inseguire la realtà, alla ricerca di segni tramite tecnologie moderne, per esempio la polaroid. E ad essere contemporaneamente tra i fondatori – con Maurizio Nannucci – dell’esperienza ZONA – poi Zona archives, luogo no–profit, autogestito dagli artisti, che diverrà luogo di incontro e presentazione di artisti a livello internazionale – credo l’unico momento veramente internazionale della vicenda dell’arte a Firenze.

Il lungo e articolato viaggio sperimentale di Masi ritrova poi – siamo alla conclusione degli anni ’70 – il tema del colore, ma lontano dalla pittoricità, lontano dalla materia pittorica, l’olio; lo riscopre come “corpo cromatico”, materia/sostanza dell’espressività. Guarneri di contro ha resistito alle lusinghe della lingua, ha tenuto a freno il desiderio e le pulsioni dell’espressione, per costruire un mondo di immagini a cerchi concentrici, un crescere continuo dall’interno, una continua variazione – che mi fa pensare alla grammatica musicale del Secondo Novecento. Masi ci propone supporti tecnologici, il plexiglas, gli acrilici dalla gamma cromatica nuova, antinaturalistica. E soprattutto concepisce sempre più l’opera come esperienza installativa, non più tableau su tela.

Guidando me stesso in questa visita tra reale e memoriale, mi avvedo che l’opera di questi artisti ha al proprio interno un nocciolo consistente, che non sempre era identificabile all’inizio ma c’era nell’universo delle intenzioni. Perciò i tre scultori, presentati quasi come nuova scuola fiorentina, oggi sono inconfrontabili, laddove ai primordi si sentivano loro stessi reciprocamente vicini e solidali in un vago “minimalismo” e opere titolate in lingua filosofico-letteraria. Ma l’osservazione vale a maggior ragione per Paolo Parisi e il potenziamento dell’esperienza pittorica; e per la fedeltà alla svolta post-informale compiuta al momento esatto da Riccardo Guarneri e Paolo Masi.

La conclusione mi pare semplice: a Firenze ci sono artisti contemporanei, a Firenze c’è l’arte contemporanea – se l’Antiquaria non fosse così invadente, tutto sarebbe visibile e la città sarebbe più moderna.

Aprile 2012, Testo di Mauro Panzera

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