E’ stato sfogliando Vogue qualche mese fa, leggendo un articolo su un weekend a Berlino che ho scoperto il lavoro della giovanissima artista newyorkese Avery K. Singer.

Nata nel 1987 Avery K. Singer ha avuto una personale in una delle gallerie berlinesi di ultima generazione, la Kraupa – Tuskany Zeidler. Tra astratto e concreto i lavori dell’artista sono un cocktail di cubismo, neoplasticismo, costruttivismo e animazione 3D. Sembra una storia di ordinaria follia, per dirla alla Bukowski, dal sapore nostalgico e primitivo la scena di “Saturday Night” con una bottiglia dagli echi morandiani, il protagonista si accascia su un bancone, una solitudine fatta di volumi e ombre, di bianchi e neri, di grigi, dicotomie contrastanti, alcool e presunti ricordi felici. Scolpito dai suoi stessi dolori che divengono ombre pioventi e stanche. Sembra quasi di sentire in lontananza, come un eco struggente e malinconico, graffiante la ruvida voce di Tom Waits cantare Blue Valentines.

Avery K Singer ci ha regalato fin ora acrilici su tela in bianco e nero, dando un effetto di sospensione, da film muto anni trenta.

“Performance artists”, “The Great Muses”, “Interrogation Spotlight”, “Dancers around an Effegy to Modernism”, titoli dei lavori del 2013, costruzioni, messe in scena, che sembrano dialogare piuttosto che derivare dal passato.

Una ricostruzione della storia innestata nel contemporaneo. Tra primitivo e meccanico, tra antico e futuro si perde l’arte della Singer.

Come non ritrovare le spigolosità delle forme care alle Demoiselles d’Avignon, o le plasticità cubiste, o la concezione di ricostruzione dell’universo in maniera geometrica e razionale? Come non ritrovare i fantocci, i manichini, le muse di Dechirichiana memoria, nelle situazioni congelate e metafisiche della Singer?

L’influsso delle maschere negre, la molteplicità di punti di vista, il trattamento dei corpi geometrizzante e meccanomorfo, forme plastiche autonome derivanti da percezioni psichiche o logiche, il tutto verso quella concretezza che fu cara ai cubisti. Un surrogato alla realtà, la versione un po’ alcolica di sogni e visioni, quella di Avery.

La giovane artista newyorkese si lascia ispirare dalle grandi Avanguardie storiche, ne fa tesoro, ne custodisce i segreti, li fa suoi, e li rielabora, ne da un nuovo aspetto con occhio e profumo contemporaneo, un carillon nostalgico ma sempre funzionante la pittura della Singer. I personaggi spesse volte sono attraversati da ombre a griglia, linee orizzontali e verticali si incontrano quasi a dare l’idea di una prigionia tortuosa e segreta, carceri di sguardi o di memoria, chi guarda è sicuramente un voyeur goloso e geloso di questi piccoli mondi visionari. In “Fellow Travelers, Flaming Creatures” sembra che un fotografo magari di moda, un Avedon geometrizzato scatti foto su un folle set fotografico a modelle non bioniche ma iconiche, capelli che sono gradini, altezze che portano ad assenza di gravità di pensiero. Quello che conta è la forma.

Nei lavori del 2012 e 2011 è ancora più forte la presenza di un ispirazione derivante dal primitivismo di origine picassiana, di muse solitarie dai nudi geometrici. I bianchi e i neri, fusi nell’intermezzo del grigio, tra volumi e astrazioni ci donano un’atmosfera trascendentale e sobria, chic, da martini bianco e olive, da aperitivo newyorkese cosmopolita, elegante e leggero, colori da fumo e cenere, dissolvenza e poi deposito razionale e plastico.

Architetta e regista di misé en scene silenziose, meccaniche e agrodolci Avery K Singer sicuramente ci stupirà ancora.