Quando ho visto il 16 mm. (riversato su VHS) che Gianni Silvestri ha girato nel 1962, con l'amico Claudio Serrapica che a 20 anni faceva lo scemo, mi sono passati davanti i miei, di vent'anni, quando da Claudio mi facevo consigliare, e lui sembrava essere l'unico adulto che capisse la condizione di “outsider” mia e dei miei compagni del liceo artistico. Erano gli anni '80, e le generazioni più grandi parlavano con nostalgia della Bologna degli anni '70.

Claudio, da mente innovatrice, se ne fregava del passato. Solo ogni tanto menzionava Marina Abramovic, Dino Gavina, Man Ray, spiegandomi che a Bologna davvero erano passati personaggi eccezionali, ma che la sonnolenza cittadina non se n'era neanche accorta. Io, a 16 anni, sapevo che frequentare lo Studio Fotografico Serrapica fosse un privilegio, e lo notavo quando raccontavo ai miei amici di giornate passate ad azionare la macchina del fumo in un teatro, mentre Stefano Stagni scattava foto di moda ad una ex-miss Italia. Ma il mondo della moda era lontano dal mio, e da Claudio cercavo di carpire l'essenza degli anni di formazione del suo studio fotografico, quando con la Nikon a tracolla ed il collega Paolo Frascaroli vagavano per la città ad immortalare eventi che potevano far loro conoscere clienti nuovi: un incontro di boxe, una partita di baseball, una performance d'arte. E' solo dopo la scomparsa di Claudio, nel 1994, che ho potuto ammirare le foto dei personaggi del mondo dell'arte di cui lui mi parlava: Marina Abramovic che inscena una performance improvvisata in studio con Ulay nel 1976, Urs Luthi che si fa ritrarre con Claudio seduto sulle sue gambe, Giovanni d'Agostino mentre dispone i tronchi di un'installazione alla G7, e ancora Hermann Nitsch, Fabio Mauri, Giovanni Mundula, Pier Paolo Calzolari e tanti altri.

Quarant'anni dopo quei momenti l'atmosfera di quegli anni sembra non voler scomparire nel ricordo di chi li ha vissuti, e per me, il cui unico ricordo artistico è l'essermi intrufolato dentro ad Arte Fiera 1976 a sei anni, l'idea che rimane è che in quel periodo le cose fossero più leggere (se non più facili), e sicuramente più spontanee, con meno secondi fini. Ora è impensabile che un artista entri in uno spazio di lavoro sconosciuto ed impersoni una performance senza altro motivo che non la voglia di farlo. La mostra Bassa Pressione vuole tentare di raccontare questa tipologia di vita, partendo dal filmato di Gianni Silvestri (a metà tra un cortometraggio surreale e una documentazione di vita del tempo) del 1962, per arrivare alle opere degli anni Ottanta di Andrea Renzini, a questi mostruosi uomini d'affari disegnati con leggerezza ed ironia, con il presagio che saranno loro i responsabili di un cambiamento. La “fanzine” (oggi si chiamerebbe pubblicazione indipendente) Cibi Sonori, che Andrea Renzini ha realizzato con Aldo Vignocchi nel 1980, ha la freschezza di un momento in cui poteva ancora cambiare il mondo, senza farci presagire che questo sarebbe cambiato in peggio.

Ed il presagio, nero e pessimistico, è invece già presente nell'opera Duale, di Giovanni Mundula, del 1976, primo esempio della sua ricerca pittorica che ne squarcia l'essenza per arrivare ad essere scultura. La tela viene divisa in due, e il bitume nero preannuncia la morte esistenziale provocata da un modo “sbagliato” di vedere le cose, quello della finanza, della globalizzazione, quello del NASDAQ che sarà il punto forte delle opere di Mundula dell'ultimo decennio. Similarmente il Gong di cera nera di Giovanni d'Agostino richiama le nuvole all'orizzonte, ma l'approccio formale e filosofico dell'opera è di altra natura. La ricerca di d'Agostino è finalizzata al togliere, allo spazzare via le inutilità confuse della nostra vita per lasciare solo l'essenza, l'opera. Il riscoprire la ricerca altissima di d'Agostino ci fa augurare che la sua figura venga rivalutata con il giusto peso nella bilancia obliqua della storia dell'arte italiana.

Lo stesso si può dire di Fabio Mauri, figura emblematica dell'arte italiana del secolo scorso, il cui lavoro è stato giustamente rivalorizzato dopo la sua morte. Una piccola traccia è presente anche in questa mostra, una tiratura fotografica dell'Ebrea, performance importante nel lavoro di ricerca politica dell'artista, assieme a Ideologia e natura, che Claudio Serrapica aveva immortalato nella storica Galleria Duemila nel 1973. Il velo d'ironia che serpeggiava in quel tempo è fortemente presente nell'autoritratto cinetico Helios, 1966, di Elio Marchegiani. Artista eccentrico e rigoroso, le cui sperimentazioni artistiche non basterebbero a colmare due carriere. Marchegiani qui gioca con le ombre in una “scatola cinese”, le quali si muovono formando una serie interminabile di combinazioni estetiche, a sottolineare le infinite possibilità della creatività umana quando essa è aiutata dalla tecnologia. John Cage, vedendo il lavoro, regalò a Marchegiani un suo vinile, consigliandogli di aggiungere musica all'opera. Cosa che Elio non mancò di fare. Ma quelli erano altri tempi.

Per chiudere il cerchio, un'opera di Andy Warhol, una prova serigrafica del suo progetto sull'Ultima Cena di Leonardo, sottolinea lo sguardo dell'artista al patrimonio del passato come chiave di lettura di un percorso unitario dell'arte. Warhol morirà poco dopo aver stampato questa serie, e con lui la leggerezza di un periodo artistico che nel tempo abbiamo capito essere essenziale per la formazione di tutto quello che è successo dopo. Se gli anni Settanta sono ancora così di moda, una loro rivalutazione accurata è necessaria per rispondere alle esigenze dell'instabilità del nostro tempo. Bassa Pressione (1962-1987) vuole allentare il passo e farci riflettere sulla strada da intraprendere partendo da qui.

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