Cosa accomuna le vicende di tanti santi draghicidi dell’agiografia cristiana? San Giorgio, San Michele, San Patrizio, San Marcello di Parigi, Sant’Ilario di Poitier. E molti, molti altri, che costellano un immaginario mitico che vede il suo prototipo nell’Arcangelo Michele che, sopprimendo il Drago, impone la supremazia su Satana; un immaginario confluito in tanto folklore popolare e nella costruzione di un’etica cavalleresca che ha permeato le letterature europee. L’eroe per antonomasia è uccisore di draghi. L’eroe combattente ha un compito di rimozione, di epurazione; si avvale di armi spirituali per soggiogare forze soverchianti e arcaiche. Drago o serpente, il rettile racchiude residui di ciò che è stato dimenticato o rimosso dalla coscienza. Ravviva il fuoco di un terrore irrazionale che, ben lungi dal vedere la sua genesi in un troppo semplicistico rigetto cristiano per le fantasie del paganesimo, fa di questi santi combattenti riflessi degli antichi eroi solari delle mitologie indoeuropee.

Cadmo, che uccide il drago sacro a Marte, custode della fonte Castalia; Perseo, che decapita la testa di Medusa dalla chioma serpentina e vince il suo sguardo mortifero; Eracle, che affronta l’Idra di Lerna, mostro dal corpo di cane e dalle innumerevoli teste serpentiformi, e in seguito il drago guardiano del giardino delle Esperidi. E così come i cavalieri cristiani fanno rivivere il gesto esemplare dell’Arcangelo Michele, gli eroi della mitologia ellenica sembrano riproporre ritualmente l’uccisione del serpente Pitone da parte di Apollo.

Ma cosa fa di questo animale straordinariamente simbolico, legato a forze primitive e a una dimensione misteriosa della natura, il grande antagonista di saghe mitologiche che coprono un arco spaziale e temporale eccezionalmente vasto, e che appaiono tuttavia scaturite da un’unica potente dimensione archetipica? Per tentare di formulare una risposta forse può soccorrerci un altro grande eroe, il quale ebbe in sorte, al pari degli altri citati, di affrontare un drago: Giasone. L’impresa che lo ha visto protagonista è quella celebre della conquista del Vello d’Oro, il leggendario manto d’ariete dal magico potere terapeutico, custodito da un drago immortale dalle dimensioni eccezionali. Ma la leggenda è in questo caso marchiata da un fatto atipico, poiché Giasone conquista il suo bottino senza macchiarsi del draghicidio. Al suo fianco, infatti, un’aiutante straordinaria, una donna, placa e addormenta il mostro con incantesimi sussurrati e il potere di un filtro magico. E’ Medea, la maga. Con il suo intervento l’eroe può vincere la sua sfida assopendo, ma non sopprimendo, le forze invincibili del cosmo.

Medea, residuo di un matriarcato già dimenticato, sancisce un’alleanza tra la donna e il serpente che vive di un ricchissimo sostrato in ogni cultura del passato. E’ messaggera di un tempo in cui il serpente era amico delle dee. Una frequentazione antica attraversa i tempi dilatati della storia assumendo volti e nomi di divinità che appaiono quasi una rifrazione del medesimo archetipo: dalle numerose dee egizie associate al cobra, di cui Iside è solo la grande erede, alle loro sorelle semitiche, mesopotamiche, fenicie, siriane. La cretese Britomarti, la sumera Lilith, l’etrusca Vanth. Troppo arduo sarebbe passare in rassegna rivisitazioni che ci porterebbero molto lontano, in un’esplorazione geografica ai confini con l’Oriente più estremo, con le antiche civiltà precolombiane del Sudamerica, con le isole della Polinesia: ovunque, le dee connaturate con le forze cosmiche sono accompagnate da cortei di serpenti, brandiscono rettili, sono avvolte in manti serpentini. Ovunque compaiono, la memoria della Grande Madre proietta la sua ombra.

La Grecia mitica fu terra assai feconda di mostruose creature ibride imparentate col serpente: Medusa dalla chioma di serpi, capace di pietrificare l’uomo con lo sguardo, al pari delle Erinni, divinità vendicatrici, e delle demoniache Gorgoni; Delfina ed Echidna, partecipi nella forma della duplice natura rettile e umana. Ma anche divinità più rassicuranti ci sorprendono per una dimestichezza inaspettata con la stessa sfera semantica: Ecate, dea lunare e infera; Atena, che porta serpenti sul manto o sull’egida; la stessa Gea, dea primordiale, potente rappresentazione dell’elemento terra, talora identificata nelle sembianze del Pitone. E poi ci sono le dee e le maghe curatrici, erboriste, pharmakìdes, che custodiscono nella famigliarità col serpente la profonda forza rigenerativa di questo animale: Igiea presso i Greci, Salus per i Romani. E ancora la dea marsica Angizia, che deteneva i segreti delle erbe e la cura contro il morso dei serpenti, e l’italica Bona Dea, all’interno del cui tempio le adepte nutrivano i rettili, lasciati vagare liberamente nelle stanze sacre. Queste dee e le loro sacerdotesse sono donne che appartengono al mondo selvaggio del matriarcato, del quale tramandano simboli specifici, quali la conoscenza delle erbe e la preparazione di medicamenti e filtri magici.

Soffermarsi sul profondissimo significato archetipico del serpente può aiutare a capire l’origine e la trasformazione da simbolo potente e positivo a incarnazione diabolica. Il suo ampio spettro di valori abbraccia tutti i territori assegnati alla magia e alla sapienza curativa: esso infatti rappresenta, attraverso il processo di muta della pelle, il principio di rigenerazione che racchiude il segreto della vera guarigione. Non a caso è attributo specifico di Esculapio, dio della medicina, portatore del caduceo, il bastone avvolto da due serpi, che ancora oggi trova posto sulla croce dell’ordine dei farmacisti. La sua presenza interpreta il senso della trasformazione spirituale che porta al superamento della malattia ma anche alla via della conoscenza, in un processo iniziatico che attraverso la morte simbolica traghetta l’essere umano verso la luce del sapere. Un sapere che sul versante femminile molto spesso ha assunto carattere di conoscenza intuitiva, o guidata da un dio attraverso la dote della profezia. Ecco perché le antiche sacerdotesse oracolari prendevano il nome di Pizie, cioè pitonesse, e perché le Baccanti, nei riti dionisiaci, nascondevano serpenti nelle loro ceste, insieme agli altri oggetti cerimoniali.

Laddove le dee sono accompagnate dal serpente, siamo certi di essere di fronte alle figlie spirituali di un’unica divinità originaria, appartenente ai tempi remoti in cui le forze della natura portavano il volto di una grande dea, padrona degli elementi e chiamata con molti nomi: Dea degli Alberi, Dea delle Fiere, Dea di Serpenti. Potnia Ophion. L’immagine arcaica e spaventosa di lei che brandisce due serpenti nelle mani era troppo intensa per essere spinta in un cono d’ombra. Con l’avvento delle civiltà patriarcali la dea cosmica venne in un certo senso addomesticata e riproposta nel volto delle nuove divinità, sue eredi: il serpente le rimase però sempre accanto, a custodia dell’antico sapere.

E’ difficile dire con precisione quando il serpente cominciò a divenire simbolo ambiguo e snaturato: ad apparire come antagonista, nemico, capro espiatorio di uno scontro tra due diverse concezioni del mondo: una più antica, mediterranea, matriarcale, e una patriarcale, che avanzava cercando disperatamente di farsi strada imponendo nuovi valori a discapito di un’eredità tanto ingombrante. Nella Bibbia questo animale è allegoria di conoscenza, ma ciò che propone ad Adamo e ad Eva è una nuova consapevolezza portatrice della perdita di uno stato di grazia, non più di una conquista del sapere. La conoscenza veste i connotati di un pericolo da combattere, di una tentazione da respingere, e non stupisce che sia stata Eva, la donna, a fare la scelta. Cogliendo la mela proibita dal patriarcato, essa decide di appropriarsi della libertà del sapere e di respingere la sottomissione culturale imposta da un dio misogino. Nasce in questo contesto un nuovo legame simbolico tra la donna e il serpente, che stravolge i significati arcaici, e apre l’interpretazione della femmina come creatura per natura più sensibile alle lusinghe del male, più incline a farsi strumento diabolico.

La ripugnanza verso le creature femminili imparentate col serpente, o sue alleate, è una costante che si riproduce nella storia fino al medioevo: da Medusa a Medea, attraverso Eva, fino alla fata Melusina delle leggende medievali, queste figure hanno incarnato paure ancestrali e antichi tabù legati alla sfera del femminile. Se le donne hanno addomesticato e nutrito i serpenti, gli uomini li hanno perseguitati e uccisi. Allora è lecito chiederci, sollevando il velo dell’allegoria che ammanta il mito, quale reale nemico abbia affrontato Eracle, e quale San Paolo, quando, giunto a Malta, uccise l’ultimo serpente velenoso dell’isola. E con lui tutti quei santi, cavalieri ed eroi che moltiplicarono nei secoli a venire il medesimo gesto. Cosa nasconde un tale titanico scontro filosofico tra il bene e il male, tra gli dei olimpici e l’antica Dea, tra la ragione e l’istinto? E soprattutto: lo scontro è tuttora vivo o sopito nelle dinamiche dell’irrazionale? In fondo anche Adamo, come Giasone, ha rinunciato a combattere col serpente e ne è risultato sconfitto. Complice Eva. E, infine, che dire delle tante Madonne che nell’iconografia cristiana sono raffigurate nell’atto di schiacciare una serpe?

In collaborazione con: www.abocamuseum.it