Era solo un alberello di pochi mesi quando vide la sua prima nevicata. Aveva appena levato dalla terra i suoi teneri rametti, tirato fuori i primi aghetti, fitti fitti, verdissimi, raggruppati sui rametti come denti di un pettine, aggrappato bene al suolo le sue radicette, che una tempesta di neve lo investì dalla chioma alle radici. I fiocchi cadevano dal cielo come se si muovessero in un oceano bianco e lui restava immobile ad ammirare quelle palline irregolari immaginando che fossero tanti baci del cielo. Il cielo lo salutava, gli dava il benvenuto al mondo regalandogli un’infinità di baci bianchi. Gli era sembrato di buon auspicio ricevere quel piacevole battesimo, si rallegrava di tutto quel candore, benediceva quei fiocchetti, quel silenzio ovattato, quella caduta serena e tranquilla. Si guardava le foglioline curioso, il nuovo abito di cui lo rivestiva una natura benevola e materna, allungava la chioma per riuscire a sbirciare il suo tronco, per capire se la corteccia madreperlacea si era rivestita del manto dell’inverno e, siccome non riusciva a piegarsi, allora si guardava tutto intorno incuriosito.

Che spettacolo straordinario gli offriva Madre Natura. Era circondato da tanti Abeti della sua specie, così maestosi e slanciati nelle loro vesti invernali, ancora più suggestivi nel loro candore innevato. Erano alberi altissimi, tanti giganti che lo guardavano dall’alto, eleganti e impassibili al mutare del loro mantello. Sembravano tanti principi superbi, con lo sguardo volto al cielo, consapevoli del proprio valore, con i rami elegantemente pettinati e appiattiti come nidi di cicogna. Ancora si poteva scorgere qualche parte di chioma, verde-blu cupo, un’infinità di aghi lunghi e con la punta arrotondata, con la parte superiore lucidissima e quella inferiore un po’ biancastra e si poteva ammirare qualche tratto bianco-grigio argenteo di corteccia non ricoperto dalla neve. Eppure man mano che la neve si raccoglieva al suolo, l’Abete percepiva uno strano calore, come se tutta quella neve morbida gli donasse protezione e amore. Si sentiva avvolto in quel magico abbraccio che protegge dal gelo consentendo alla terra di far entrare il fluido magico della vita, quel liquido bianco capace di fecondare nuovi semi e di farli germogliare dopo una solida unione. Il contatto con quel fluido gli dava una piacevole emozione, si sentiva partecipe della magia del paesaggio, della grandezza della Foresta, dell’ineguagliabile fascino dei suoi fratelli Abeti.

I fiocchi erano sempre più grandi e pesanti e scendevano in ogni direzione, guidati da un gelido vento, infiniti granelli di ghiaccio che si depositavano soffici al suolo. L’anima dell’Abetino studiava il mistero di quell’avvenimento, cercava di comprendere l’arcano segreto di tanta magnificenza, si abbandonava alla fantasia, godeva di ogni attimo. Ci sarebbe voluto uno sguardo più adulto per accorgersi dell’armonia degli abiti femminili delle Faggete, dell’equilibrio dei fusti dei cugini Aceri, della possanza del vecchio nonno Olmo, della poesia della Betulla, del fascino dei Carpini… Invece la sua giovane età lo faceva attento a ogni fruscio, a ogni soffio di vento, a ogni carezza che riceveva sul volto. Immaginava spiriti e spiritelli, gnomi ed elfi, fatine e streghette. L’alberello era davvero ammaliato da tanta grazia, stupito da ogni novità, incuriosito da ogni mutazione.

Alla fine della nevicata si accorse di quello specchio di ghiaccio, di tutta quell’acqua che lo aveva dissetato e rallegrato nella bella stagione e che ora era una lastra liscia e omogenea, un riflesso argenteo del giardino del Paradiso. Il suo laghetto montano pieno di trote e salmerini, dove contemplava il movimento delle salamandre e dei tritoni, si era trasformato in uno stadio ghiacciato per far pattinare i monelli della valle vicina. La piantina pensava alla pacata marmotta, all’effervescente capriolo, al simpatico daino, al superbo cervo, alla scaltra volpe, al rumoroso cinghiale, al famelico lupo. Dove si erano rifugiati? Avevano fatto in tempo a ritirarsi nelle loro tane? Avrebbero trovato il cibo per sopravvivere Dove si sarebbero abbeverati? Si faceva un sacco di domande nel tepore di quelle immagini da favola. Si chiedeva dove fossero finiti gli uccelli, dov’era scomparso il loro canto, dove avevano sepolto i loro nidi. Per un attimo lo sfiorò un impercettibile senso di tristezza, poi pensò alle poiane, al canto della civetta, al volo delle aquile, si ricordò della nobiltà dell’Aquila Reale, dell’imponenza del suo volo e di nuovo la sua linfa riprese a scorrere con calore e tutto il suo fusto ricominciò a sorridere.

In quell’istante gli comparve davanti uno splendido esemplare d’ermellino bianco, un animaletto estremamente vivace e forse anche un poco aggressivo. Con le zampette si arrampicò sul suo tronco sottile mordicchiando ogni tanto la corteccia alla ricerca di qualcosa di commestibile. Una bimbetta curiosa lo inseguiva. Si fermò di fronte all’Abetino e subito l’ermellino scappò via. La bimba allora accarezzò la corteccia della piantina, prese un poco di neve e l’assaggiò. Indossava una cuffietta di pelliccia e un cappottino azzurro, aveva il naso rosso per il freddo e le guanciotte piene d’allegria. Sentì subito l’emozione dell’alberello e udì il suo alito di voce. I bambini comprendono sempre la musica degli alberi, conoscono le loro sinfonie e danzano le loro ballate. La piccolina prese l’Abete per il rametto, gli sospirò all’orecchio un segreto e cominciò a cantare con lui. Le loro voci si unirono nel tripudio del silenzio e ogni angolo di bosco si mise in ascolto. La neve si fermò un attimo in cielo sorpresa di quelle note sommesse nella quiete del bosco, poi ricominciò implacabile la sua discesa verso terra. Il sole brillò tra le nubi facendo penetrare senza invadenza un unico raggio che sfiorò la chioma dolce dell’Abetino. La bimba lanciò un urletto di gioia che scosse ogni foglia della foresta.

Da quel giorno, ogni mattina, la bambina andò a giocare con lui. Lo vestiva con ogni genere di stoffa, lo addobbava con ogni tipo di ritaglio, ci appendeva i suoi pupazzi, le pigne secche del bosco e ogni oggetto che le piaceva. Talvolta lo lasciava carico di collane e ciondoli e pieno di tutti i suoi sogni. Così trascorsero tutto l’inverno, sempre divertendosi in mezzo alla neve. Quando giunse la bella stagione, mentre i due amici si confessavano i loro segreti, s’udì un fruscio tra le foglie. La bimba si voltò e vide l’ermellino nel suo vestito primaverile, una pelliccia bruna con la coda nera. Era accompagnato da un’ermellina con la pelliccia ambrata. Gli ermellini fecero un inchino in segno di saluto, poi tornarono a percorrere la loro strada. La bambina e l’Abetino si presero per mano e si guardarono contenti. L’alberello tolse le radici dal suolo, stiracchiò le gambe e s’incamminò verso l’ignoto della crescita. Inesperto com’era, muoveva insicuro i suoi primi passi guidato dalla mano sicura della sua amica. Salirono insieme sul pendio più scosceso della montagna e raggiunsero con fatica la vetta. Uno gnomo con il vestito viola li accolse nella sua casetta e li nutrì con semi di zucca e di girasole.

In poco tempo, i due si trasformarono in un principe e una principessa, due splendidi altissimi Abeti bianchi senza corona e senza regno.
Anche adesso che sono passati mille anni, li troverete ancora lì, al limitare del laghetto, con i rami intrecciati dall’amore e le chiome innevate ancora di fresco.

Quando la neve soffice scende
un manto candido nel suolo stende
per far entrare un fluido vitale
che possa un seme far germogliare.

Una piantina col cuore sincero
può abbandonarsi se ama davvero
e se si unisce con forza e coraggio
si trova avvolta in un magico abbraccio.