Siamo entrati qui dentro d’istinto e non è stata una brutta scelta, anzi, siamo stati fortunati, ci sono sei bagni, tre per i maschi e tre per le femmine e un ricambio d’aria che passa attraverso una serie di filtri, il sistema d’areazione funziona meccanicamente per cui forse non avremo problemi, ma il non sapere più nulla di quel che è successo fuori pesa comunque da morire, niente telefoni, niente radio niente tv e da ieri niente passi che risuonano sulla strada, un silenzio d’inferno.

Questo posto era una discoteca ricavata in un grande seminterrato ma visto così, alla luce delle candele, pare un antro enorme, per fortuna ci siamo organizzati subito, quando ancora c’era elettricità, ci sono pacchi di candele anche molto grandi che sarebbero dovute servire per una festa per lo meno così ha detto il proprietario del locale che è qui con noi, in un magazzino c’è anche molto scatolame, purtroppo la roba surgelata è andata, l’abbiamo mangiata finché è stato possibile, c’è anche una cucina ma non c’è gas e quindi serve a ben poco perché non possiamo più cuocere niente.

Siamo chiusi qui da una settimana, funzionano solo gli orologi di cellulari e portatili non c’è campo né rete o meglio pare ci sia ma non c’è accesso e comunque ormai le batterie sono quasi tutte esaurite, i ragazzi smanettano per trovare un aggancio, non si rassegnano, gli pare impossibile non poter più comunicare col mondo. Tutti restiamo molto in silenzio cercando di raggiungere l’esterno con l’udito ma da qualche giorno non arriva più nessun suono, siamo isolati e il desiderio di sapere cos’è successo stava diventando insopportabile e così, ieri, due ragazzi hanno voluto uscire a tutti i costi, erano soli qui, senza genitori, e nessuno di noi aveva il diritto di trattenerli, li abbiamo guardati uscire e poi abbiamo fissato la porta chiusa alle loro spalle senza riuscire a staccare lo sguardo, avevano promesso che sarebbero tornati subito a dirci com’era il mondo fuori ma per ora non sono tornati.

Quelli di noi più anziani reggono meglio la situazione, ieri, un uomo che si chiama Piero ha raccontato di quando era bambino, durante la seconda guerra mondiale: "Allora" - ci disse - "al richiamo delle sirene tutti scappavano nei rifugi" - poi si è messo a descrivere un posto che era qui vicino, un paio di strade più giù, si ricordava benissimo di tutto, anche dell’odore: "Qui si sta molto meglio" - ha detto - "abbiamo i bagni e ci possiamo anche lavare, ci vuole solo un po’ di pazienza, prima o poi capiremo che cosa è successo e cosa possiamo fare, per ora stiamo tranquilli, è importante mantenere la calma".

Qualcuno ha fatto cenno di sì con la testa, i più giovani invece davano segni di insofferenza ma è normale, sentono il mondo nel sangue e non possono viverlo. La cosa peggiore è che qui è sempre buio, di giorno la luce entra da un paio di bocche di lupo, piccole finestrelle posizionate in alto ma basta appena per distinguere le poltroncine dai tavolini e solo nella sala grande. Le candele le abbiamo razionate da subito e la sera le spegniamo presto, tutte tranne una, il buio totale fa paura a tutti qui dentro. Comunque è incredibile la quantità di luce che fa una sola candela, l’abbiamo piazzata al centro dello stanzone e tutt’intorno abbiamo sistemato le poltroncine, stiamo lì a guardare la fiamma che balla in un silenzio che pesa una tonnellata.

Ieri sera, con voce pacata, Piero ha iniziato a raccontare di quando, tanti anni prima, i contadini si radunavano sotto un portico per liberare le pannocchie di granoturco dalle foglie e dalla “barba” per poi appenderle a seccare. “Spogliare la meliga”, si diceva e in quelle sere, alla luce delle lampade a petrolio, gli anziani raccontavano storie di paura. "…io, a quel tempo, ero solo un bimbetto ma mi ricordo ancora la storia di Battista.

Era un giovane di Borgo San Dalmazzo, un paese non lontano dalla Francia, una notte, per dimostrare di essere coraggioso aveva scommesso che sarebbe entrato, da solo, nel cimitero e lo avrebbe attraversato, come prova avrebbe piantato un pezzo di legno sulla tomba di suo nonno. La sera dopo si son trovati tutti nel piazzale del cimitero, anche le ragazze e lui, con un sorriso un po’ storto si è infilato nella tasca del giaccone un pezzo di ramo appuntito e ha baldanzosamente scavalcato il muro di cinta. La luna piena proiettava ombre lunghe e le croci parevano muoversi al vento, si accorse che l’ansia non gli permetteva di orientarsi e col cuore che batteva forte iniziò a vagare alla ricerca di un punto di riferimento.

All’improvviso un gatto, saltato fuori da dietro una tomba con due salti è stato sul muro di cinta e si è fermato a guardarlo con due occhi fluorescenti che pareva il diavolo, subito dopo un sasso lanciato dai suoi amici è rimbalzato sinistramente sulla ghiaia togliendogli il fiato. Da lì in poi anche i suoi passi hanno cominciato a stridere sulla ghiaia con un rumore maledettamente macabro, finalmente, col cuore in gola gli sembrò di riconoscere la statua di un angelo inginocchiato e allora proseguì su quel sentiero riconoscendo qua e là il percorso. I suoi amici intanto, ridendo continuavano a lanciare sassi all’interno ma questo, tutto sommato ora lo faceva sentire meno solo, doveva solo trovare quella diavolo di tomba e poi sarebbe corso via, saltato il muretto e abbracciato tutti, soprattutto le ragazze.

Eccola! Superò un altro paio di tombe e la raggiunse, guardò per un attimo la fotografia nell’ovale dove suo nonno lo guardava severo con i sui baffoni a manubrio. 'Scusa nonno' - disse sottovoce e trattenendo il fiato strinse forte il ramo che aveva in tasca poi, chinandosi un poco lo spinse con forza a terra, ma in quel momento si sentì tirare per la giacca e più tentava di piantare il ramo più si sentiva tirare verso la tomba, terrorizzato sentì la tasca cedere e il ramo uscire dalla fodera nella quale si era impigliato: ma non entrò nella terra perché ormai lui era morto di paura".

I ragazzi si sono messi a ridere e hanno iniziato a far battute per far credere che a loro non sarebbe successo, poi, quando le loro risa si sono spente, Piero ha iniziato un nuovo racconto "… un lampo", ha detto con voce forte, "un lampo accecante, per fortuna aveva poggiato la bicicletta al palo e si era allontanato di un passo per un piccolo bisogno, avesse ancora avuto le mani sul manubrio si sarebbe fuso anche lui. Un turbine di fuoco era partito dalla cima del lampione e con uno schianto secco e una spirale di fuoco blu elettrico era andato a scaricarsi sulla bicicletta. Il campanello aveva suonato prima di sciogliersi, drin drin, e questo gli aveva fatto una grande impressione.

I capelli gli si erano tirati su e anche i peli, dritti e rivolti verso il fulmine che lo aveva anche accecato per qualche secondo. Quando si riprese si sentì immerso in un buio profondo, temette di essere diventato cieco, frugò nelle tasche e ne estrasse l’accendino. No, per fortuna ci vedeva, cercò le luci del paese, giù a valle ma doveva essere saltato qualcosa alla centrale, perché era tutto spento, si avvicinò alla bicicletta che stava ancora fumando poi si incamminò lungo la via di casa guardando il cielo che di colpo si era fatto nero come la pece. Faticava a trovare la strada sebbene la conoscesse: 'Ancora un paio di curve, poi il rettilineo e arrivo dritto nel mio cortile'.

D’un tratto in quel buio totale inciampò e cadde. C’era qualcosa per terra ma quando si raddrizzò non riuscì a capire cosa diavolo fosse, cercò l’accendino e alla luce traballante della fiamma,vide la faccia di suo padre che sorrideva in modo strano, certo non a lui perché pareva morto. Provò a scuoterlo e rivedendo quel sorriso ebbe paura, si rese anche conto che non riusciva a provare dolore, era come se quello non fosse veramente suo padre, sapeva che era lui ma quel sorriso non lo riconosceva, poi sentì un odore cattivo, una puzza tremenda che usciva da quel corpo, pensò che prima di morire quell’uomo doveva aver allentato lo sfintere.

In quel momento una folata di vento gelido lo avvolse e prese a scendere una pioggerellina fitta fitta. Tornò a guardare il volto di suo padre e si accorse che aveva perso quello strano sorriso e allora non ne ebbe più paura, lo caricò sulle spalle e lo portò a casa. Entrando nella corte sentì i cani che gli correvano incontro abbaiando come forsennati, non appena lo riconobbero, dopo un carosello di saluto tornarono di corsa verso casa e senza smettere di abbaiare sparirono all’interno, stranamente la porta era aperta e tutte le luci erano spente. Entrò e provò a premere l’interruttore ma senza risultato, depose il corpo sul sofà e a voce alta chiamò sua madre più volte senza ricevere alcuna risposta.

I cani intanto erano saliti al piano di sopra e continuavano ad abbaiare: 'Zitti voi!' - urlò - 'State zitti una buona volta!'. Ma quelli continuavano a fare una sarabanda incredibile, sembravano impazziti. Cercò a tentoni la pila che teneva in un cassetto, l’accese e salì le scale; entrando in camera dei suoi genitori vide sua madre distesa sul letto con le mani premute sulla faccia e i cani col pelo dritto che ringhiavano. Mosse verso di lei allontanando malamente quelle bestie inferocite, allungò un braccio verso sua madre e non appena la sfiorò il ringhio dei cani si tramutò in guaito e con la coda fra le gambe uscirono dalla stanza. Allora lui le scostò le mani e il cerchio di luce illuminò una specie di sorriso che stava svanendo. Era morta.

Scese in cucina, si caricò il corpo del padre sulle spalle e tornò in camera tenendo la pila fra i denti, lo depose sul letto e si accorse che il sorriso era scomparso del tutto anche dal viso della madre. Non sapeva pregare, si sedette accanto a loro e li vegliò sino all’alba. La luce restituì la normalità alle cose, dalla finestra vide che i cani erano nella loro cuccia ben rintanati e le galline razzolavano tranquille. Scese nel portico, cercò la bicicletta di suo padre e con quella andò in paese. Già alle prime case sentì che qualche cosa non andava, incrociò un paio di persone che conosceva ma non gli rivolsero nemmeno un saluto, andavano per la loro strada a testa bassa. Arrivò in piazza, era sabato e normalmente sotto i portici e dentro il bar c’erano un sacco di persone, anche perché la messa delle sette doveva essere appena finita ma in giro non c’era quasi nessuno. Poggiò la bicicletta a un pilastro ed entrò nel bar.

Davide, il barista, guardava fisso davanti a sé muovendo su e giù la testa, come dicesse: 'Sì, sì ma non stava parlando con nessuno'. Seduto a un tavolino un vecchio contadino che conosceva da sempre, se ne stava girato verso il muro, rimestava il caffè nella tazza producendo un tintinnio ossessivo, il locale era intriso di un forte odore di bruciato e un fumo denso si sollevava dalla piastra dove qualcosa si stava carbonizzando e solo allora si accorse che l’acqua stava uscendo a tutta forza dal rubinetto spalancato e schizzava da tutte le parti. In un angolo vide una ragazza assorta nella lettura ma che teneva gli occhi fissi sul foglio senza voltare mai la pagina, pareva congelata, batteva solo le palpebre. Uscì senza dire nulla e quando fu fuori si accorse che le poche persone che aveva visto muoversi sotto i portici camminavano senza un senso, arrivavano al fondo delle arcate e tornavano su e poi ancora giù e così via ma non si salutavano, non si parlavano e ognuno pareva immerso in qualche importante pensiero. Con stupore si rese conto che non c’erano auto in movimento, quindi nessun rumore, solo il risuonare dei passi di quelli che camminavano sotto il portico, il tintinnio del cucchiaino e lo scrosciare dell’acqua nel lavandino del bar".

Inutile dire che stava sognando. Risvegliatosi di colpo, accese la radio e seppe che l’ex presidente del consiglio era stato finalmente arrestato e tutti i suoi si erano spaventati temendo la stessa sorte. Nel silenzio che seguì restammo tesi a ascoltare se dall’esterno arrivasse qualche suono ma come al solito niente di niente. In un angolo due ragazzi stavano infilando scatolette in un sacco: "Ce ne andiamo" - ha detto uno dei due a voce alta - "Non possiamo più restare qui senza sapere cosa è successo, torniamo subito, facciamo solo un giro, le scatolette le prendiamo per precauzione, non si sa mai". Mara, la ragazza che gli stava vicino, lo ha abbracciato e baciato a lungo.

Li abbiamo guardati uscire senza fiatare, tutti pensavamo fosse una cosa che andava fatta ma noi sapevamo di non averne il coraggio. Prima che la porta si chiudesse del tutto la ragazza ha gridato loro: "Buena suerte!". E’ passata una notte e un’altra ancora ma non sono tornati, non ci sono stati altri racconti ma qualcuno è rimasto sveglio sino a vedere la candela che moriva, la ragazza, Mara, che non ha chiuso occhio e piange disperata. Oggi pomeriggio ha preso il cellulare, si è infilata un maglione e senza dire una parola è uscita. Ora siamo in dodici e in fondo al cuore il fatto che qualcuno se ne sia andato ci fa piacere, almeno abbiamo una speranza, forse torneranno con qualche notizia. La ragazza non ha preso nemmeno una scatoletta: "Rientrerà subito" - ci siamo detti - "tra poco la sentiremo bussare", - ce lo siamo ripetuti sapendo che non sarebbe successo e infatti Mara non è tornata e son già passati tre giorni.

Oggi Piero si è sentito male, è pallido e gli si sono arrossate le palpebre, tra di noi non c’è un medico e nessuno sa che fare, una ragazza ha aperto una bottiglietta di minerale e gli ha versato in bocca un sorso d’acqua ma è colata lungo il collo. Si è spento così, senza una parola e noi ora non sappiamo che fare del suo corpo, ci guardiamo senza saper che fare poi due ragazzi si offrono di portarlo all’esterno: "Rientriamo subito, ma diamo almeno un’occhiata". Cercano la nostra approvazione e ce l’hanno, come tutti gli altri l’hanno avuta, i vigliacchi si tengono al sicuro, chissà chi ancora avrà il coraggio di uscire se non torneranno nemmeno loro. Non li ha salutati nessuno, l’impressione è che avrebbe portato male, però li abbiamo aspettati per tutto il giorno e anche la notte, fingendo di non essere preoccupati.

E così siamo rimasti in dieci, due maschi anziani, Alfredo Lo Cascio, il proprietario della discoteca, e Giuseppe Loffredo che lavorava per lui e io, Franco Perego, fotografo di cinquantadue, tre donne di mezza età, Franca Carlotto, Miriam De Falla e Piera Mongiu e poi quattro adolescenti, Mattia e Andrea Cravero che sono fratelli e Matilde e Diego Donfrancesco anche loro fratelli e poco più grandi. Esclusi i ragazzi che sono troppo giovani, per il resto siamo sei codardi, avremmo dovuto uscire noi per primi, abbiamo già vissuto abbastanza e mentre lo sto pensando lo dico a voce alta.

"Adesso non possiamo più aspettare, noi, i più vecchi, dobbiamo tentare, cercar di capire e se non potremo tornare così sia". Ci siamo decisi in tre, i maschi, abbiamo scritto un biglietto con i nostri nomi e un saluto a chi sapevamo noi e dopo aver abbracciato tutti ci siamo avviati verso la scala, ma quando stavamo per uscire i ragazzi hanno detto: "Vogliamo venire con voi" e allora anche le donne si sono decise, hanno infilato nelle borse tutte le scatolette che potevano portare e le bottiglie d’acqua. Siamo usciti in fila indiana.