In un mondo del cinema consacrato alla tecnologia e al 3D si incontrano ancora voci originali che si nutrono di poesia e di idee e cercano di trasmettere a un pubblico cannibalizzato dai nuovi mezzi del cinema, l’importanza dei silenzi, della lentezza e della semplicità.

Abbiamo intervistato un giovane regista di origine sarda, Peter Marcias (Oristano, 1977), autore di vari film tra cui I bambini della sua vita del 2011 e Dimmi che destino avrò, distribuito in questi mesi nei cinema italiani da Gianluca Arcopinto e la sua Pablo, con grandi apprezzamenti da parte di critica e pubblico. Ci ha accolto con solarità e simpatia nella sua calda dimora romana arredata con spirito e fantasia e ci ha stupito con la sua spontaneità.

PB: Salve Peter! Ho visto il film Dimmi che destino avrò con mia figlia di nove anni che ha detto: “Finalmente un film senza violenza e delicato”, è stato un intento della tua regia o dello sceneggiatore di trasmettere allo spettatore questo messaggio?
PM: Guarda, è partito tutto dallo sceneggiatore, Gianni Loy, che mi ha detto: “Peter, ti vorrei presentare degli amici… Mi è venuta un’idea che è nelle tue corde”. Gianni è un uomo sensibile, è un professore, un giurista, un uomo pieno di talento e interessi. Mi ha condotto al campo Rom di Monserrato – una cittadina attaccata a Cagliari – e da quel momento ho fatto lo stesso percorso che ha fatto il commissario nel film, sono stato invitato nelle baracche a prendere un caffè e poi tutto il resto. Devo dire che la prima impressione è stata piacevole: tutti quegli ambienti colorati e pieni di oggetti, quelle stufe sempre accese, quel calore che permea le stanze, quel continuo caricare la legna… insomma quelle case di legno sembrava che mi accogliessero. Da questa sensazione è partita l’atmosfera del film, il gusto per la convivialità è stato suggerito proprio dall’ambiente. Poi i film si sviluppano per mesi e il resto avviene strada facendo. E sono stati importanti i consigli del produttore Gianluca Arcopinto.

PB: Qualcuno ti ha chiesto che senso ha questo film senza effetti speciali nel futuro del cinema, ma tu credi che il vero cinema abbia un futuro negli effetti speciali, nella tecnologia spinta, nel chiasso degli inseguimenti, nei continui spostamenti della scena per confondere e stupire lo spettatore, oppure credi che siano le idee a dover veicolare il messaggio del cinema?
PM: Non la penso così, anzi, mi piacerebbe fare un film di quel genere, io sono versatile e malleabile. Per questa storia era utile avvalersi dei silenzi, il percorso narrativo lo rendeva indispensabile. In Italia c’è tutto un sottobosco di registi che fa nascere questo genere di film, ma secondo me si possono fare degli ottimi film anche giovandosi della tecnologia. Certo, visto che oggi il cinema se la deve cavare con dei piccoli budget, alla fine siamo costretti a lavorare molto sulle idee, però non ti nascondo che mi piacerebbe girare un film utilizzando le possibilità che offre la tecnologia, a patto, però, che si tratti di una bella storia.

PB: Perché hai fatto un film sulla cultura Romanès? Ti piace aprirti alla diversità in generale oppure sei attratto dalla magia dei Rom? O semplicemente preferisci schierarti con i più deboli?
PM: Io non sono dalla parte di nessuno quando giro un film, piuttosto mi coinvolgono le storie, mi piace arricchirle con un mio sguardo personale. E stavolta è capitato con questa sceneggiatura di Gianni Loy, che è un profondo conoscitore della cultura Rom. Mi piace, senza dubbio, parlare di diversità. Se devo essere sincero, cerco di far scontrare le diversità perché credo che questo confronto generi una crescita. In questo film è la diversità del commissario, di Alina, del figlio del commissario, della città di Cagliari, insomma tutte le diversità che sbucano dalla macchina da presa.

PB: Mi racconti un aneddoto sui campi nomadi?
PM: Ce ne sono diversi, ma mi viene in mente l’inizio. Dovevamo girare il film nel campo di Monserrato, ma due settimane prima di cominciare a girare, si è ammalato una personalità molto importante del campo. Lo avevo attentamente selezionato per interpretare il ruolo del padre di Alina, un ruolo importante! Mi hanno chiamato alle sette del mattino e mi hanno comunicato che Zahid era stato ricoverato e che era in coma. Ci sono stati attimi di forte apprensione, infatti il povero Zahid poi è morto. Io sono anche andato al suo funerale, l’ho vissuto con tutti loro. La questione più drammatica è che in un campo Rom quando muore una personalità importante si devono osservare 40 giorni di lutto… e non si può fare nulla, non si può accendere la televisione, non si può festeggiare e di certo non si può girare un film… Ma io dovevo iniziare le riprese, non potevo aspettare… i tempi, il budget… Insomma, alla fine ho cambiato campo, sono andato a girare al campo nomadi di Dolianova/Selargius utilizzando anche le persone già scelte a Monserrato. Ho mischiato le persone dei due campi ed è stato bello, ho potuto conoscere gente diversa, alla fine è stata una vera opportunità.

PB: Hai lavorato con due attori professionisti come Luli Bitri e Salvatore Cantalupo, ma la maggior parte dei protagonisti di questo film sono veri Rom e Sinti, giusto? Come è stato lavorare con loro? Che emozioni ti hanno trasmesso? Cosa ti hanno insegnato?
PM: È stato molto complesso fare i provini. La mia selezione è stata attenta e precisa. Grazie alla Fondazione “Anna Ruggiu” c’è stata una collaborazione con un regolare rapporto di lavoro, sono stati assunti in tutti i ruoli, attori, ma anche come aiuti alla scenografia, all’organizzazione, al catering e questo ha facilitato il nostro rapporto. Loro poi sono stati un’occasione perché mi hanno ricordato cosa manca oggi a noi italiani che viviamo in queste grandi città, in una dimensione spersonalizzante. Anche loro, per la verità, sono italiani, ormai vivono nel campo da quasi quarant’anni, ma hanno un modo di vivere che ricorda i piccoli paesi della Sardegna, dove si sta tutti insieme. I Rom vivono molto le relazioni, ci sono continue discussioni, dibattiti, discorsi anche molto accesi, mentre noi a Roma, oggi, non sappiamo nemmeno chi abita alla porta accanto… sia a Roma, ma anche a Cagliari, viviamo una situazione di solitudine e di disinteresse nei confronti dell’altro. Nella loro comunità c’è invece molta attenzione all’altro, ad antichi valori che noi abbiamo perduto. Loro mi hanno insegnato, quindi, l’importanza dei rapporti umani.

PB: E come vi siete preparati con la Bitri per farle entrare dentro il mondo Rom, per essere una di loro? Il risultato è stupefacente, è veramente a suo agio nel ruolo di Alina?
PM: Luli è una grande professionista, si è formata all’Accademia di Tirana. Lei interpreta un ruolo dopo essersi preparata, è molto recettiva nel profondo, tende a disinteressarsi, invece, delle cose futili. La preparazione più importante è avvenuta sul campo. Lei si è veramente messa in discussione buttandosi in quel tipo di vita per comprenderla e per poter diventare una di loro. Si è immersa in quella cultura e l’ha fatta sua. Non è stato facile, ma il risultato è stato ottimo grazie alla sua professionalità ma anche grazie alla sua volontà di mettersi in gioco, in ascolto degli altri e della sua voglia di imparare. Una delle cose che l’ha affascinata è stato il modo di vivere non strutturato e con poche certezza, una qualità che, per come si sta evolvendo la società, dovremmo conoscere meglio tutti noi che non ne abbiamo esperienza.

PB: Parlami dell’ambientazione del film: perché la scelta di una città come Cagliari, avevi bisogno di contrapporre il mare, la spiaggia, al disordine delle baracche dei campi Rom? Oppure il senso di infinito dell’orizzonte marino ti serve per allargare i confini con cui siamo abituati a confrontarci?
PM: Non vorrei fare un discorso troppo spicciolo, ma Cagliari è la mia città e ha sempre un posto nel mio cuore. Quando tu hai un’idea ti viene sempre più facile svilupparla, pensarla dietro casa. Nelle storie, occorre raccontare ciò che si conosce, anche se i grandi riescono a raccontare bene anche ciò di cui non hanno diretta esperienza. Poi Cagliari, la Sardegna, si prestano bene, mi piaceva narrare la dimensione dell’isola, l’accoglienza dei nomadi che vivono nel loro isolamento strutturato da secoli. E poi volevo tornare a girare a Cagliari per raccontare una versione diversa rispetto a quella che emerge dall’altro film I bambini della sua vita… Era anche un mio bisogno…

PB: In questo film non hai lavorato con scenografi professionisti, eppure le scene interne alle baracche zingare sono molto calde, c’è in qualche modo una certa poesia negli accostamenti degli oggetti, come hai ottenuto questo effetto? È merito delle inquadrature?
PM: Il merito è stato di lasciare tutto com’era. Le comunità Rom hanno dinamiche di spostamento e di organizzazione che sono molto poetiche soprattutto sul nascere della giornata. Ti faccio un esempio: loro si alzano la mattina e non pensano minimamente di farsi una doccia, di pettinarsi – non sono perfettini come noi e non lo dico con un’ombra di giudizio – loro stanno con i capelli arruffati, con i vestiti sgualciti, hanno una sorta di non precisione che genera un disordine metodico. Anche coloro che non sono allineati hanno un loro poetico ordine e questo traspare anche nel disordine che regna nel campo e che lo rende molto suggestivo. Puoi trovare il pentolino sul letto, la pastina sul divano e tutto questo è assolutamente naturale e spontaneo. Io sono stato molto attento a questo dettagli, ho cercato di coglierli. Le scenografie le hanno generate artisticamente loro stessi, io le ho fissate rispettosamente sulla pellicola.

PS: Quando hai girato il film I bambini della mia vita hai lavorato con scenografi professionisti come Ewa e Osvaldo Desideri, abituati ai più grandi registi del cinema, come ti sei trovato? Quale è stato il loro valore aggiunto alla tua regia?
PM: Con loro mi sono trovato molto bene. Hanno un modo di lavorare – lo dico senza giudizio ma piuttosto con ammirazione – molto accademico, hanno una notevole percezione delle cose strutturate con senso. Un tempo i set dei grandi registi erano studiati in ogni dettaglio, anche con un’accurata ricostruzione storica, ma i budget dei film erano diversi. La mia scommessa è stata mettere dei mostri sacri della scenografia in un film d’autore con piccoli capitali – questo film non ha superato il milione di euro –, è stata veramente una sfida. Osvaldo ha vinto l’Oscar per L’ultimo Imperatore di Bertolucci, è uno che sa il fatto suo, ha trovato delle soluzioni che hanno consentito di allineare la sceneggiatura. Lui ed Ewa hanno avuto una fantastica idea: aprire la Manifattura Tabacchi per girare le scene al suo interno. Sono riusciti a vedere il potenziale di quel luogo, costruendoci un piccolo set, una piccola Cinecittà sarda. Sono stati molto bravi a reinventarsi la città, a strutturare tutta la situazione in maniera molto più oggettiva di come avrei fatto io e hanno dato un’immagine poetica della mia città vedendo delle cose, delle realtà, degli scorci, che io non avrei visto… forse l’avrei infarcita della mia soggettività da sardo.

PB: È vero che si parla anche di bambini, ma il tema di questo film si presta poco alla visione di un pubblico troppo giovane, allora perché la scelta della formula cartone? Per alleggerire le scene più drammatiche?
PM: Hai ragione, mi piaceva alleggerire la situazione di disagio familiare in cui era costretta a vivere la bambina, volevo che la visione della bambina fosse alleviata dai colori. I cartoni animati hanno il potere di attenuare il disagio infantile.

PB: Una sorta di visione poetica permea ogni scena dei tuoi film, anche quando i temi sono tutt’altro che lievi; è un distintivo della tua sensibilità o la poesia è una scelta di fondo che caratterizza il tuo lavoro?
PM: Non si tratta di una scelta, faccio quello che è connaturato alla mia personalità. Sono il meno adatto a parlare del mio stile, seguo l’istinto nel mio lavoro, mi fido molto dell’istinto. A volte si possono prendere veri e propri abbagli, ma se divento un calcolatore non sono a mio agio, anche se il calcolo a volte può essere il segreto del successo.

PB: C’è un difficile lavoro di ricostruzione del passato attraverso i flashback in questo film, un intento delle sceneggiatore?
PM: Assolutamente sì, il giovane scrittore e sceneggiatore Marco Porru (che è in libreria con un romanzo fantastico e pluri-apprezzato dalla stampa nazionale L’eredità dei corpi edito da Nutrimenti) ha impostato la sceneggiatura così, una sorta di incastro a scatole cinesi. Mi è piaciuto questo suo modo di raccontare, la sua originalità, questa scelta di non linearità a cui si è affidato.

PB: Le tematiche omosessuali sono presenti in molti dei tuoi lavori, quale messaggio intendi trasmettere in merito a questa diversità? C’è qualche grande regista del cinema internazionale a cui ti ispiri?
PM: Mi piace sempre inserire queste note sull’omosessualità perché arricchiscono le mie storie. Esplorare la voglia di paternità di un gay e, nello stesso tempo, il disagio di uno come lui, anche riguardo al giudizio che ne dà la Chiesa nel film I bambini della sua vita è stato molto importante anche per me. In Dimmi che destino avrò, il personaggio è secondario, cerco però di mettere in risalto che anche se il commissario in qualche modo accetta l’omosessualità di suo figlio, gli manca l’apertura per accettare e confrontarsi sulla diversità culturale dei Rom, almeno inizialmente.

PB: Mi racconti come mai hai scelto la strada del cinema? Qualcuno della famiglia o degli amici ti ha influenzato o è una passione tua personale?
PM: Mio padre è un commerciante, mia madre è sempre al suo fianco, non ho esempi familiari nel mondo del cinema. È una mia passione, nata fin da piccolo, fin dai tempi in cui frequentavo la cineteca sarda a Cagliari. È stata una scelta di vita, quella di dedicarmi interamente a questo lavoro. Lo faccio con infinita passione, non parlo solo di cinema, ma di documentari, spot pubblicitari e tanto altro.

PB: Su quale film stai lavorando in questo momento? Ho saputo che a Cannes diversi produttori sono interessati al tuo lavoro, hai delle novità in merito?
PM: Dimmi che destino avrò ha partecipato al Marchè di Cannes 2013 grazie a Cosimo Santoro e la sua The Open Reel. Il film ha interessato molti distributori esteri e soprattutto festival. In Italia il film è distribuito dalla Pablo di Arcopinto (è uscito al cinema lo scorso 29 novembre, dopo la presentazione ufficiale al Torino International Film Festival) e ha fatto un ottimo lavoro di divulgazione, se si pensa che quasi 35mila persone tra sala e web (l’uscita natalizia con Repubblica.it) hanno visto l’opera. Ora sto lavorando a un documentario sulla grande attrice Piera degli Esposti, poi ho un’infinità di altri progetti, però per scaramanzia preferisco non parlarne. Nel mondo del cinema non c’è mai nulla di certo, il motore di tutto sono i contributi legati ai produttori e non so ancora quale o quali di questi progetti andranno effettivamente a buon fine.

PB: Cosa ti aspetti dal futuro e che cosa desideri più di ogni altra cosa nel tuo lavoro e - perché no - anche nella vita?
PM: Mi aspetto di riuscire ancora a lavorare in questo settore. Sono tempi difficili, in cui c’è un passaggio epocale importante. Le nuove tecnologie rendono ogni cosa semplice e a portata di mano compresi i film da scaricare con facilità dal web. C’è difficoltà a distribuire i film, molta difficoltà ad avere visibilità, inoltre, oltre agli scompensi creati dai facili prodotti gratuiti, l’offerta è veramente tanta e occorre farsi largo tra la folla dei film. Mi auguro che prima o poi ci sia una compensazione tra il fare e il far vedere l’opera, me lo auguro per me e per tutti i professionisti seri che fanno il mio stesso lavoro.

PB: Sei emigrato dalla tua isola: necessità o volontà? Hai qualche nostalgia o rimpianto?
PM: Fin da piccolo ho sempre amato viaggiare e ora devo dire che è molto facile andare e tornare. Io amo girare l’Italia e anche il mondo quando mi sposto per i vari festival. Mi piace questo movimento e con il lavoro da regista, che è lontano dai vincoli impiegatizi, ho la libertà di volare.
PB: Se a 35 anni hai già lavorato con nomi come Piera degli Esposti, Paolo Bonacelli, Nino Frassica, con gli scenografi Desideri, Marco Onorato e tanti altri, cosa farai da grande? Posso definirti una delle giovani promesse del cinema italiano o la crisi ha talmente investito il nostro Paese che sarai ancora costretto a emigrare oltre il Bel Paese?

PM: Ti ringrazio, ma io nutro diffidenza quando si dice che sono giovane. Negli altri paesi a 25-30 anni si è già diventati dei professionisti, mentre qui sembra che cominci ora ad affacciarti nel mondo del cinema. Io sono uno che si muove molto, perché ho scelto di fare solo questo lavoro, faccio tanto e trovo stimolante conoscere sempre gente nuova. Mi piacerebbe immensamente anche andare a girare all’estero, sono assolutamente aperto, non ho limiti e non sento che andare oltre l’Italia sia una costrizione. Sono un cittadino del mondo, non capisco, piuttosto, quelli che stanno fermi. In un certo senso li ammiro, io mi sentirei prigioniero. Voglio vivere intensamente e fare tutti i viaggi che mi sarà possibile fare in questo meraviglioso e misterioso viaggio che ci offre la vita.

Ringraziamo il simpatico Peter per la sua disponibilità e speriamo che questa sua apertura verso il mondo lo conduca a Itaca solo dopo aver esplorato tante altre interessanti isole…