Proust era un uomo ossessionato da molte cose. Dal Tempo, come ci suggerisce il titolo della sua opera; dal giudizio degli altri, come si evince dalle sue lettere; da un autista coi baffi, come ci raccontano i suoi biografi; da un dolcetto a forma di conchiglia, come dicono che non l’hanno letto. Dai colori, infine (?), dai nomi propri. I nomi contengono promesse, creano attese, svelano sfumature; e la loro forza evocativa è tale che spesso diventano “tutto quello che ci rimane di un essere, non solo quando è morto, ma anche mentre è vivo”.

Le ossessioni spesso sono destinate a incontrarsi, e associare nomi e colori è difatti un’operazione che Proust conosce molto bene. Basta leggere il primo volume della Recherche per rendersene conto. La strada di Swann, che si apre con la spiazzante digressione sulla vita rurale di un insonne (Combray) e prosegue lungo il flashback mondano di una passione parigina (Un amore di Swann), si trasforma d’improvviso in una sterminata, delirante sinestesia.

In Nomi di paese: il nome, per oltre una decina di pagine il Narratore immagina – senza peraltro lasciare mai la sua stanza – di viaggiare attraverso la Francia e l’Italia lungo un arcobaleno di città sconosciute. Ecco che i nomi diventano colori: Quimperle è argento, Pont- Aven rosa, Coutances grassa e gialla come burro, Benodet è intrisa nel verde delle alghe, Vitré di legno nero e Bayeux di un rosso che diventa oro nell’ultima sillaba, Lamballe una distesa bianca che dal guscio d’uovo sfuma nel grigio perla. Venezia è di velluto rosso, Firenze bagnata nell’oro, Parma coperta di violette.

L’essenza colorata dei nomi non riguarda soltanto i luoghi, ma anche gli esseri e quindi i personaggi: i Guermantes sono bagnati d’oro, Odette immersa nel malva, Charlus condannato al nero, Gilberte persa nel verde. Un destino simile spetta dunque ai “coloristi” della Recherche, ovvero ai vari artisti e pittori citati nel romanzo. “Forse la fine più congeniale e più equa, per un pittore, è quella di essere trasformato in un colore, come Dafne nel lauro”, scrive Roberto Calasso in un bel saggio su Giambattista Tiepolo. Proust non cita mai un’opera precisa del pittore veneto, ma soltanto la sfumatura confetto che il suo nome contiene, nuance di donne eleganti, amate, fatali. Ancora una volta il nome diventa colore, svelando un mondo evanescente, irresistibile, impalpabile come talco.

“Il mio libro è un quadro”, ha scritto Proust a Jean Cocteau. Nell’immenso affresco della Recherche, se il nome Tiepolo evoca il rosa di una seta impalpabile, Vermeer è il giallo di un muretto caldo di sole, Piranesi il grigio di uno scorcio sinistro, Giotto il blu di una volta stellata. Ogni artista porta con sé, racchiusa nel suo nome, una determinata luce. Questo atlante arbitrario e dedicato è il tentativo – sommamente proustiano e senza dubbio ossessivo – di catturarla.

Testo di Eleonora Marangoni tratto dal volume Proust. I colori del Tempo. Electa, Milano 2014.